Giovanni Pascoli

Poemi Conviviali

[1904-1905]

 

Edizione di riferimento

Giovanni Pascoli, primo, con due saggi critici di Gianfranco Contini e una nota bio-bibliografica, Oscar Classici, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1974, III edizione (I ed. 1939)

NON OMNES ARBUSTA IUVANT

ΧΑΙΡΕ ΚΑΙ ΠΩ ΤΑΝΔΕ

ALL'AMICO ADOLFO DE BOSIS

PREFAZIONE

ADOLFO, il tuo CONVITO non è terminato. Nel gennaio del 1895 cominciava, e doveva continuare per ogni mese di quell'anno, in Roma. Come fui chiamato anch'io a far parte di quel «vivo fascio di energie militanti le quali valessero a salvare qualche cosa bella e ideale dalla torbida onda di volgarità che ricopriva omai tutta la terra privilegiata dove Leonardo creò le sue donne imperiose e Michelangelo i suoi eroi indomabili»?

In quel gennaio cominciavo e in quel decembre avrei compito il mio quarantesimo anno. Tutte le giornate, dal gennaio al decembre, mi si consumavano nell'esercizio del magistero. Avevo veduta una sola volta, e di sfuggita, e distratto da altre debite cure, Roma. Sottili facevo le spese, come par giusto alla nostra madre Italia che povera e trita passi la vita di coloro che le educano e istruiscono gli altri figli, nostri minori fratelli. Ero di quelli che s'erano ritratti «a coltivare» (secondo altre parole del Proemio del CONVITO) «a coltivare la loro tristezza come un giardino solitario». Eppure, no: non ero di quelli; ché, in verità, non avrei cercato d'avere, per un mio proprio gusto, di quella tristezza e il fiore e il frutto! O inameni fiori! O frutti amarissimi! Chi vorrebbe essere l'ortolano e il giardiniere della morte? I frutti degli alberi nei cimiteri non si mangiano, ma si lasciano cadere. Non si dà alle bestie l'erba che nasce, così rigogliosa, così fiorita, nei camposanti; ma si brucia. Ora io coltivavo e coltivo quella tristezza per un qualche utile dei miei simili; per dire ad essi la parola che forse importa più di tutte le altre: che oltre i mali necessari della vita e che noi, quali possiamo appena attenuare, quali nemmeno attenuare, vi sono altri mali che sono i soli veri mali, e questi sì possiamo abolire con somma e pronta facilità. Come? Col contentarci. Ciò che piace, è sì il molto; ma il poco è ciò che appaga. Chi ha sete, crede che un'anfora non lo disseterebbe; e una coppa lo disseta. Ora ecco la sventura aggiunta del genere umano: l'assetato, perché crede che un'anfora non basti alla sua sete, sottrae agli altri assetati tutta l'anfora, a cui berrà una coppa sola. Peggio ancora: spezza l'anfora, perché, altri non beva, se egli non può bere. Peggio che mai: dopo aver bevuto esso, sperde per terra il liquore perché agli altri cresca la sete e l'odio. E infinitamente peggio: si uccidono tra loro, i sitibondi, perché non beva nessuno. Oh! bevete un po' per uno, stolidi, e poi fate di riempire la buona anfora per quelli che verranno!

Per questo, che io dico che la poca gioia che può aver l'uomo è nel poco, io sono, caro Adolfo, sincero. Mi fu dato di provare il pregio del poco, sì per essermi stato da altri rubato tutto, sì per avere io ricuperato, di quel poco, un pocolino. «Il pregio del poco» ho detto... Ma in verità che cosa si può pretender di più poco, che d'essere lasciato, fin che piaccia alla natura, con chi vi ha messo al mondo? Basta: parliamo d'altro. Dunque del poco che mi fu sottratto, ho poi ricuperato un pochino. E ne mostro, come è giusto, un pochino di gioia. Sono dunque sincero, quando parlo della delizia che c'è, a vivere in una casa pulita, sebben povera, ad assidersi avanti una tovaglia di bucato, sebben grossa, a coltivare qualche fiore, a sentir cantare gli uccelli... Ma questa sincerità si chiama, dai malati di storia letteraria, Arcadia [1]. Io sono (. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .) un arcade. La mia, oltre che finzione sarebbe anche sdolcinatura e mascolinatura, destinata a produrre, se non si castiga a tempo, gli effetti più deleteri nell'organismo nazionale. Consimili, chiedo io, a quelli che ha prodotti nel Giappone la contemplazione ingenua degli uccelli e dei fiori? la predilezione per la piccola casa e il piccolo orto e il semplice e puro tatami? Sciocchi! Io non credo troppo nell'efficacia della poesia, e poco spero in quella della mia; ma se un'efficacia ha da essere, sarà di conforto e di esaltazione e di perseveranza e di serenità. Sarà di forza; perché forza ci ho messo, non avendo nel mio essere, semplificato dalla sventura, se non forza, da metterci; forza di poca vista, bensì, e di poco suono, perché, senza gale e senza fanfare, è non altro che forza.

Dunque, nemmeno allora io era chiuso in un «giardino solitario», sebbene fossi molto segregato e lontano e oscuro. Quando mi chiamaste tra quelle «energie militanti» tu e Gabriele d'Annunzio.

O mio fratello, minore e maggiore, Gabriele!

Già sette anni prima Gabriele aveva scritto, intorno ad alcuni miei sonetti, parole di gran lode. Già entrando nella mia Romagna, a cavallo, col suo reggimento, cantava (e lo diceva al pubblico italiano) certi miei versi:

 

Romagna solatìa, dolce paese!

 

Il giovinetto, pieno di grazia e di gloria, si rivolgeva ogni momento dalla sua via fiorita e luminosa, per trarre dall'ombra e dal deserto e dal silenzio e, sì, dalla sua tristezza, il fratello maggiore e minore. Io nella irrequietezza della vita, ho potuto talvolta dimenticare quel gesto gentile del fanciullo prodigioso; ma ci sono tornato su, sempre, ammirando e amando. Ci torno su, ora, più che mai grato, ora che raccolgo e a te, o Adolfo, re del convito, consacro questi poemi, dei quali i primi comparvero nel convito e piacquero a lui. Piaceranno agli altri? Giova sperare. O avranno la sorte d'un altro mio scritto conviviale, della Minerva Oscura, che poi generò altri due volumi, Sotto il Velame e La Mirabile Visione, e ancora una Prolusione al Paradiso, e altri ancora ne creerà? Non mi dorrebbe troppo se questi Poemi avessero la sorte di quei volumi. Essi furono derisi e depressi, oltraggiati e calunniati, ma vivranno. Io morrò; quelli no. Così credo, così so: la mia tomba non sarà silenziosa. Il Genio di nostra gente Dante, la additerà ai suoi figli.

Prima di quel giorno, che verrà tanto prima per me, che per te, e per Gabriele, non vorremo fruire il convito, facendo l'ultimo de dodici libri? Narreremo in esso ciò che sperammo e ciò che sognammo, e ciò che seminammo e ciò che mietemmo, e ciò che lasciamo e ciò che abbandoniamo. O Adolfo, tu sarai (non parlo di Gabriele, ché egli s'è beato) più lieto o men triste di me! Sai perché? Il perché è in questo tuo libro. Leggi «i vecchi di ceo». Tutti e due lasciano la vita assai sereni: ma uno più, l'altro meno. Questi non ha in casa, come messe della sua vita, se non qualche corona istmia o nemea, d'appio secco e d'appio verde (oh! secco ormai anche questo!). L'altro, e ha di codeste ghirlande, e ha figli dei figli. Tu sei quest'ultimo, o Adolfo; tu sei Panthide che ebbe il dono dalle Chariti!

 

Pisa, 30 giugno del 1904.

Giovanni Pascoli

SOLON

Triste il convito senza canto, come

tempio senza votivo oro di doni;

ché questo è bello: attendere al cantore

che nella voce ha l'eco dell'Ignoto.

Oh! nulla, io dico, è bello più, che udire

un buon cantore, placidi, seduti

l'un presso l'altro, avanti mense piene

di pani biondi e di fumanti carni,

mentre il fanciullo dal cratere attinge

vino, e lo porta e versa nelle coppe;

e dire in tanto grazïosi detti,

mentre la cetra inalza il suo sacro inno;

o dell'auleta querulo, che piange,

godere, poi che ti si muta in cuore

il suo dolore in tua felicità.

«Solon, dicesti un giorno tu: Beato

chi ama, chi cavalli ha solidunghi,

cani da preda, un ospite lontano.

Ora te né lontano ospite giova

né, già vecchio, i bei cani né cavalli

di solid'unghia, né l'amore, o savio.

Te la coppa ora giova: ora tu lodi

più vecchio il vino e più novello il canto.

E novelle al Pireo, con la bonaccia

prima e co' primi stormi, due canzoni

oltremarine giunsero. Le reca

una donna d'Eresso». «Apri:» rispose;

«alla rondine, o Phoco, apri la porta. »

Erano le Anthesterïe: s'apriva

il fumeo doglio e si saggiava il vino.

Entrò, col lume della primavera

e con l'alito salso dell'Egeo,

la cantatrice. Ella sapea due canti:

l'uno, d'amore, l'altro era di morte.

Entrò pensosa; e Phoco le porgeva

uno sgabello d'auree borchie ornato

ed una coppa. Ella sedé, reggendo

la risonante pèctide; ne strinse

tacita intorno ai còllabi le corde;

tentò le corde fremebonde, e disse:

Splende al plenilunïo l'orto; il melo

trema appena d'un tremolio d'argento...

Nei lontani monti color di cielo

sibila il vento.

Mugghia il vento, strepita tra le forre,

su le quercie gettasi... Il mio non sembra

che un tremore, ma è l'amore, e corre,

spossa le membra!

M'è lontano dalle ricciute chiome,

quanto il sole; sì, ma mi giunge al cuore,

come il sole: bello, ma bello come

sole che muore.

Dileguare! e altro non voglio: voglio

farmi chiarità che da lui si effonda.

Scoglio estremo della gran luce, scoglio

su la grande onda,

dolce è da te scendere dove è pace:

scende il sole nell'infinito mare;

trema e scende la chiarità seguace

crepuscolare.

«La Morte è questa!» il vecchio esclamò. «Questo,»

ella rispose, «è, ospite, l'Amore».

Tentò le corde fremebonde, e disse:

 

Togli il pianto. È colpa! Sei del poeta

nella casa, tu. Chi dirà che fui?

Piangi il morto atleta: beltà d'atleta

muore con lui.

 

Muore la virtù dell'eroe che il cocchio

spinge urlando tra le nemiche schiere;

muore il seno, sì, di Rhodòpi, l'occhio

del timoniere;

 

ma non muore il canto che tra il tintinno

della pèctide apre il candor dell'ale.

E il poeta fin che non muoia l'inno,

vive, immortale,

 

poi che l'inno (diano le rosee dita

pace al peplo, a noi non s'addice il lutto)

è la nostra forza e beltà, la vita,

l'anima, tutto!

 

E chi voglia me rivedere, tocchi

queste corde, canti un mio canto: in quella,

tutta rose rimireranno gli occhi

Saffo la bella.

 

Questo era il canto della Morte; e il vecchio

Solon qui disse: «Ch'io l'impari, e muoia».

 

 

IL CIECO DI CHIO

 

O Deliàs, o gracile rampollo

di palma, ai piedi sorto su del Cyntho,

alla corrente del canoro Inopo;

figlia di Palma; di qual dono io mai

posso bearti il giovanetto cuore?

Ché all'invito de' giovani scotendo

gl'indifferenti riccioli del capo,

gioia t'hai fatto del vegliardo grigio

cui poter falla e desiderio avanza.

E lui su le me lievi orme adducevi

all'opaca radura ed al giaciglio

delle stridule foglie, in mezzo ai pini

sonanti un fresco brulichìo di pioggia

presso la salsa musica del mare.

Né già la bianca tua beltà celasti

a gli occhi della sua memore mano:

non vista ad altri, che a lui cieco e, forse,

al solitario tacito alcïone.

 

O Deliàs, e già finì la gara

de' tunicati Iàoni: già tace

il vostro coro, grande meraviglia,

in cui nessuna di te meglio scosse

i procellosi crotali d'argento.

Ed il nocchiero su la nave nera

l'albero drizza, ed in su trae le pietre,

le gravi pietre su cui dondolando

dorme la nave nel loquace porto.

Ora un nocchiero addimandai: Nocchiero,

vago per l'onde come smergo ombroso,

dài ch'alla nave il pio cantore ascenda?

cieco uomo, e vive nella scabra Chio.

Così te veda un ospite all'approdo.

Tanto io gli dissi. Egli assentì; ché grande

è del cantore, ben che nudo e cieco,

la grazia in uno ardor di venti, in una

ai cuori alati ritrosia di calma.

 

E di qual dono, o Deliàs, partendo,

né so per dove, su la nave nera,

posso bearti il giovanetto cuore?

Ché non possiedo, fuor della bisaccia

lacera, nulla, e dell'eburnea cetra.

E il canto, industre che pur sia, non m'offre

se non un colmo calice ed un tocco

di pingue verro e, terminato il canto,

una lunga nel cuore eco di gioia.

Io cieco vo lungo l'alterna voce

del grigio mare; sotto un pino io dormo,

dai pomi avari: se non se talora

m'annunzïò, per luoghi soli, stalle

di mandrïani un subito latrato;

o, mentre erravo tra la neve e il vento,

la vampa da un aperto uscio improvvisa

nella sua casa mi svelò la donna

che fila nel chiaror del focolare.

 

Pur non già nulla dar non può, sì molto,

il cieco aedo; e quale a me tu dono,

negato a tutti, della tua bellezza,

offristi, donna; né maggior potevi;

tale a te l'offro, né potrei maggiore.

Cieco non ero, e ciò pascea con gli occhi,

che rumino ora bove pazïente;

e il fior coglievo delle cose, ch'ora

nella silenzïosa ombra mi odora.

Era per aspri gioghi il mio cammino,

degli uomini vetusti, antelunari.

Nacquero sopra le montagne nere,

che ancor la luna non correa su quelle:

nacque dopo essi, e palpitò per loro

gemiti strani. Era un meriggio estivo:

io sentiva negli occhi arsi il barbaglio

della via bianca, e nell'orecchio un vasto

tintinnìo di cicale ebbre di sole.

 

Ed ecco io vidi alla mia destra un folto

bosco d'antiche roveri, che al giogo

parea del monte salir su, cantando

a quando a quando con un improvviso

lancio discorde delle mille braccia.

Entrai nel bosco abbrividendo, e molto

con muto labbro venerai le ninfe,

non forse audace violassi il musco

molle, lambito da' lor molli piedi.

E giunsi a un fonte che gemea solingo

sotto un gran leccio, dentro una sonora

conca di scabra pomice, che il pianto

già pianto urgea con grappoli di stille

nuove, caduchi, e ne traeva un canto

dolce, infinito. Io là m'assisi, al rezzo.

Poi, non so come, un dio mi vinse: presi

l'eburnea cetra e lungamente, a prova

col sacro fonte, pizzicai le corde.

 

Così scoppiò nel tremulo meriggio

il vario squillo d'un'aerea rissa:

e grande lo stupore era de' lecci,

ché grande e chiaro tra la cetra arguta

era l'agone, e la vocal fontana.

Ogni voce del fonte, ogni tintinno,

la cava cetra ripetea com'eco;

e due diceva in cuore suo le polle

forse il pastore che pascea non lungi.

Ma tardo, al fine, m'incantai sul giogo

d'oro, con gli occhi, e su le corde mosse

come da un breve anelito; e li chiusi,

vinto; e sentii come il frusciare in tanto

di mille cetre, che piovea nell'ombra;

e sentii come lontanar tra quello

la meraviglia di dedalee storie,

simili a bianche e lunghe vie, fuggenti

all'ombra d'olmi e di tremuli pioppi:

 

Allora io vidi, o Deliàs, con gli occhi,

l'ultima volta. O Deliàs, la dea

vidi, e la cetra della dea: con fila

sottili e lunghe come strie di pioggia

tessuta in cielo; iridescenti al sole.

E mi parlò, grave, e mi disse: Infante!

qual dio nemico a gareggiar ti spinse,

uomo con dea? Chi con gli dei contese,

non s'ode ai piedi il balbettìo dei bimbi,

reduce. Or va, però che mite ho il cuore:

voglio che il male ti germogli un bene.

Sarai felice di sentir tu solo,

tremando in cuore, nella sacra notte,

parole degne de' silenzi opachi.

Sarai felice di veder tu solo,

non ciò che il volgo vìola con gli occhi,

ma delle cose l'ombra lunga, immensa,

nel tuo segreto pallido tramonto.

 

Disse, e disparve; e, per tentar che feci

le irrequïete palpebre, più nulla

io vidi delle cose altro che l'ombra,

pago, finché non m'apparisti al raggio

della tua voce limpida, o fanciulla

di Delo, o palma del canoro Inopo,

sola tu del mio sogno anche più bella,

maggior dell'ombra che di te serpeggia

nel mio segreto pallido tramonto.

Ora a te sola ridirò le storie

meravigliose, che sentii quel giorno

come vie bianche lontanar tra i pioppi.

E quale il tuo, che non maggior potevi,

tale il mio dono, né potrei maggiore;

ché il bene in te qui lascerò, come ape

che punge, e il male resterà più grave,

grave sol ora, al tuo cantor, cui diede

la Musa un bene e, Deliàs, un male!

 

 

LA CETRA D'ACHILLE

 

I

 

I re, le genti degli Achei vestiti

di bronzo, tutti, sì, dormian domati

dal molle sonno, e i lor cavalli sciolti

dai giogo, avvinti con le briglie ai carri,

pascean, soffiando, il bianco orzo e la spelta.

Dormivano i custodi anche de' fuochi,

abbandonato il capo sugli scudi

lustri, rotondi, presso i fuochi accesi,

al cui guizzare balenava il rame

dell'armi, come nuvolaglia a notte,

prima d'un nembo: Domator di tutto

teneva il sonno i Panachei chiomanti,

mirabilmente, nella notte ch'era

l'ultima notte del Pelide Achille;

e in cuore ognuno lo sapea, nel cielo

e nella terra, e tutti ora sbuffando:

dalle narici il rauco sonno, in sogno

lo vedean fare un grande arco cadendo,

e sollevare un vortice di fumo;

ma in sogno senza altro fragor cadeva,

simile ad ombra; e senza suono, a un tratto,

i cavalli e gli eroi misero un ringhio

acuto, i carri scosser via gli aurighi,

mentre laggiù, sotto Ilio, alta e feroce

la bronzea voce si frangea, d'Achille.

 

II

 

Dormian, sì, tutti; e tra il lor muto sonno

giungeva un vasto singhiozzar dal mare.

Piangean le figlie del verace Mare,

nel nero Ponto, l'ancor vivo Achille,

lontane, ch'egli non ne udisse il pianto.

Ed altre, sì, con improvviso scroscio

ululando montavano alla spiaggia,

per dirgli il fato o trarlo a sé; ma in vano:

fuggian con grida e gemiti e singhiozzi

lasciando le lor bianche orme di schiuma.

Ma non le udiva, benché desto, Achille,

desto sol esso; ch'egli empiva intanto

a sé l'orecchio con la cetra arguta,

dedalea cetra, scelta dalle prede

di Thebe sacra ch'egli avea distrutta.

Or, pieno il cuore di quei chiari squilli,

non udiva su lui piangere il mare,

e non udiva il suo vocale Xantho

parlar com'uomo all'inclito fratello,

Folgore, che gli rispondea nitrendo.

L'eroe cantava i morti eroi, cantava

sé, su la cetra già da lui predata.

Avea la spoglia, su le membra ignude,

d'un lion rosso già da lui raggiunto,

irsuta, lunga sino ai pie' veloci.

 

III

 

Così le glorie degli eroi consunti

dal rogo, e sé con lor cantava Achille,

desto sol esso degli Achei chiomanti:

ecco, avanti gli stette uno, canuto,

simile in vista a vecchio dio ramingo.

E gli fu presso e gli baciò le mani

terribili. Sbalzò attonito Achille

su, dal suo seggio, e il morto lion rosso

gli raspò con le curve unghie i garretti.

E gli volgeva le parole alate:

Vecchio, chi sei? donde venuto? Sembri,

sì, nell'aspetto Primo re, ma regio

non è il mantello che ti para il vento.

Chi ti fu guida nella notte oscura?

Parla, e per filo il tutto narra, o vecchio.

E gli parlava rispondendo il vecchio:

No, non ti sono io re, splendido Achille;

un dio felice non mi fu l'auriga:

io da me venni. Tutti, anche i custodi

dormono presso il crepitar dei fuochi.

Tu solo vegli; e non udii, venendo,

ch'esili stridi dagli eroi sopiti,

e che un sommesso brulichio dai morti.

E nella sacra notte a me fu guida

un suono, il suono d'una cetra, Achille.

 

IV

 

Lo guardò scuro e gli rispose Achille:

Tu non m'hai detto il caro nome, e donde

vieni e perché. Non forse tu notturno

vieni, alle navi degli Achei ricurve,

per dono grande, ad esplorare, o vecchio?

E gli parlava rispondendo il vecchio:

Io sono aedo, o pieveloce Achille,

caro ai guerrieri, non guerriero io stesso.

Io nacqui sotto la selvosa Placo,

in Thebe sacra, già da te distrutta.

Da te non vengo a liberarmi un figlio

cui lecchi il sangue un vigile tuo cane;

il figlio, no; recando qui sul forte

plaustro mulare tripodi e lebeti

e pepli e manti e molto oro nell'arca.

Non a me copia, non a te n'è d'uopo;

ché tu sei già del tuo destino, e tutti

lo sanno, il cielo, l'infinito mare,

la nera terra, e lo sai tu ch'hai dato

ai cari amici le tue prede e i doni

splendidi; ansati tripodi, cavalli,

muli, lustranti buoi, donne ben cinte,

e grigio ferro, e reso Ettore al padre

e la tua vita al suo dovere... Oh! rendi

dunque all'aedo la sua cetra, Achille!

 

V

 

Disse, e sporgea la mano alla sua cetra

bella, dedalea, ma l'argenteo giogo

era dai peli del lion coperto.

E il cuor d'Achille, mareggiava, come

il mare in dubbio di spezzar la nave,

piccola, curva. E poi parlava, e disse:

TE'; riporgendo al pio cantor 'la cetra;

non sì che, urtando nel pulito seggio,

non mettesse, tremando, ella uno squillo.

Poi tacque, in mano dell'aedo, anch'ella.

Allora, stando, il pari a un dio Pelide

udì ringhiare i suoi grandi cavalli,

intese Xantho favellar com'uomo,

e parlar della sua morte al fratello,

Folgor, che gli rispondea nitrendo.

Allora udì su lui piangere il mare,

piangere le figlie del verace Mare,

lui, così bello, lui così nel fiore;

e molte con un improvviso scroscio

venir per trarlo via con sé; ma in vano.

E vide nella sacra notte il fato

suo, che aspettava alle Sinistre Porte,

come l'auriga asceso già sul carro,

la sferza in pugno, che all'eroe si volge,

sopragiungente nel fulgor dell'armi.

 

VI

 

E il vecchio disse le parole alate:

Lascia ch'io vada senz'indugio, e porti

- meco la cetra, che non forse il cuore

nero t'inviti a piangere, su questa

cetra di glorie, l'ancor vivo Achille.

Lascia che pianga e mare e terra e cielo;

tu no. Non devi inebbriar di canto

tu, divo Achille, l'animo sereno

che sa, non devi a te celare il fato,

non che ti volle ma che tu volesti.

Restaci grande, o Peleiade Achille!

Noi, canteremo. Noi di te diremo

che, sì, piangevi, ma lontano e solo,

e che dicevi il tuo dolore all'onde

del mare ed alle nuvole del cielo.

E noi diremo che una dea non vista

a frenar la tua fosca ira veniva,

e ti prendea per la criniera rossa,

rossa criniera che così sconvolta

poi ti lisciava un'altra dea non vista,

nel tuo dolore; e che obbedivi a voci

dell'infinito o cielo o mare: avanti,

spingendo con un grande urlo d'auriga

verso la morte l'immortal tuo Xantho.

Disse e disparve nell'ambrosia notte.

 

VII

 

E stette Achille ad ascoltare i ringhi

de' suoi cavalli, e più lontano il pianto

delle Nereidi, e dentro i lor singhiozzi

sentì più trista, sì ma più sommessa,

la voce della sua cerulea madre.

Anche sentì tra il sonno alto del campo

passar con chiaro tintinnìo la cetra,

di cui tentava il pio cantor le corde;

mentre i cavalli sospendean, fremendo,

di dirompere il bianco orzo e la spelta.

Passava il canto tra la morte e il sogno:

qualche avvoltoio, sorto su dai morti,

gli eroi viventi ventilava in fronte.

Lontanò ella sotto il cielo azzurro,

e poi vanì. Né più la intese Achille.

Né gli restava, oltre i cavalli e il carro

da guerra e le stellanti armi, più nulla,

se non montare sopra i due cavalli,

fulgido, in armi, come Sole, andando

al suo tramonto. Quando udì vicino

un singulto: Briseide su la soglia

stava, e piangeva, la sua dolce schiava.

Ed egli allora si corcò tenendo

lei tra le braccia, con su lor la pelle

del lion rosso; ed aspettò l'aurora.

 

 

LE MEMNONIDI

 

Ecco apparì l'Aurora che la terra

nera toccava con le rosee dita.

 

I

 

Disse: - Uccidesti il figlio dell'Aurora:

non rivedrai né la sua madre ancora!

 

E sì, t'amavo come un suo fratello.

Tu fulvo, ei nero; nero sì, ma bello:

 

tu come rogo che divampa al vento,

ei come rogo che la pioggia ha spento:

 

Memnone amato! E tu dovevi amare

lui nato in cielo figlio tu del mare!

 

L'azzurro mare ama la terra nera;

il giorno ardente ama l'opaca sera;

 

l'opera, il sonno; ama il dolor la morte...

Va dunque, Achille, alle Sinistre Porte!

 

II

 

Io sì t'amava, e ti ricordo, molle

della mia guazza la criniera fulva,

nella lontana Ftia ricca di zolle:

 

nei boschi, invasi dall'odor di lauro,

del Pelio: lungo lo Sperchèo, tra l'ulva

pesta dall'ugne del tuo gran Centauro.

 

Io ti mostrava là su l'alte nevi

i foschi lupi che notturni a zonzo

fiutaron l'antro dove tu giacevi:

 

e tu gettavi contro loro incauto

la voce ch'ora squilla come bronzo,

allor sonava come lidio flauto.

 

Io ti vedeva predatore impube

correre a piedi, immerso nella tua

anima azzurra come in una nube;

 

io, rosseggiando, e con la bianca falce

la luna smorta, vedevam laggiù

correre un uomo dietro una grande alce.

 

III

 

E meco c'era Memnone, che un urlo

dal ciel mandava ai piedi tuoi veloci.

Tu li credevi di laggiù le voci

forse della palustre oca o del chiurlo.

 

Perché t'amava anch'esso, il tuo fratello

crepuscolare, che poi te protervo

seduto sopra il boccheggiante cervo,

circondava de' suoi strilli d'uccello.

 

Or egli è pietra, e ben che nera pietra,

il figlio dell'Aurora ha le sue pene,

ché quando io sorgo, e piango, ei dalle verte

rivibra un pianto come suon di cetra...

 

forse sospesa a un ramo, quale io credo

d'udite ancora, qui tra i pini e i cedri,

che al primo sbuffo de' miei due polledri

vibrò chiamando il suo perduto aedo.

 

IV

 

E quando io sorgo, le Memnonie gralle

fanno lor giochi, quali intorno un rogo,

non come aurighi con Ferèe cavalle

sbalzano in alto sotto il lieve giogo,

con la lucida sferza su le spalle;

 

e né come unti lottatori ignudi

che si serrano a modo di due travi,

e né come aspri pugili coi crudi

cesti allacciati intorno ai pugni gravi;

ma come eroi, con l'aste e con gli scudi.

 

Quasi al fuoco d'un rogo, al mio barlume

ecco ogni eroe contro un eroe si slancia:

lottano in mezzo alle rosate schiume

del lago, e il molle becco è la lor lancia,

e non ferisce sul brocchier di piume.

 

Guarda le innocue gralle irrequiete,

là, con lo scudo ombelicato e il casco!

negli acquitrini dove voi mietete

lanuginose canne di falasco,

per tetto della casa alta, d'abete.

 

V

 

Ei piange, e vede la mia mano ch'apre

rosea, di monte in monte, uscì e cancelli;

apre, toccando lieve i chiavistelli,

alle belanti pecore, alle capre;

 

anche al fanciullo che la verga toglie,

curva, e si lima i cari occhi col dosso

dell'altra mano: anche al villano scosso

di mezzo ai sogni dall'industre moglie;

 

anche all'auriga che i cavalli aggioga

al carro asperso ancor del sangue d'ieri,

mentre l'eroe, già stretti gli stinieri,

prende lo scudo per l'argentea soga:

 

scudo rotondo, di lucente elettro,

grande, con le città, con le capanne,

e greggi e mandre, e corbe d'uva e manne

di spighe, e un re pei solchi, con lo scettro.

 

VI

 

Ma te non più porterò via, divino

eroe, sul carro, col rotondo scudo

ch'ha suon di tibie, e dolce canta, ai lino:

 

dall'altra parte tornerò del cielo,

a sera, e te con altri ignudi ignudo

io parerò tenendo un aureo stelo;

 

un aureo stelo con in cima un astro;

e parerò le vostre esili vite,

come un pastore, con quel mio vincastro:

 

un gregge d'ombre, senza i folti velli

color viola. E per le vie muffite

v'udrò stridire come vipistrelli.

 

La bianca Rupe tu vedrai, dov'ogni

luce tramonta, tu vedrai le Porte

del Sole e il muto popolo dei Sogni.

 

E giunto alfine sosterai nel Prato

sparso dei gialli fiori della morte,

immortalmente, Achille, affaticato.

 

VII

 

Dove dirai: Fossi lassù garzone,

in terra altrui, di povero padrone;

 

ma pur godessi, al sole ed alla luna,

la dolce vita che ad ognuno è una;

 

e i miei cavalli fossero giovenchi,

che lustro il pelo, i passi hanno sbilenchi;

 

e ritrovassi, nell'uscir dal tetto,

per asta dalla lunga ombra, il pungetto;

 

e rimirassi, nell'uscir dal clatro,

per carro dal sonante asse, l'aratro:

 

l'aratro pio che cigola e lavora

nella penombra della nuova aurora! -

 

Diceva, e già nel cielo era appassita:

venne il Sole, e s'alzò l'urlo di guerra.

 

 

ANTÌCLO

 

E con un urlo rispondeva Antìclo,

dentro il cavallo, a quell'aerea voce;

se a lui la bocca non empìa col pugno

Odisseo, pronto, gli altri eroi salvando;

e ognun chiamando tuttavia per nome

la voce alata dileguò lontano;

fin ch'all'orecchio degli eroi non giunse

che il loro corto anelito nel buio;

come già prima, quando già lì fuori

impallidiva il vasto urlìo del giorno,

l'urlìo venato da virginei cori,

che udian dietro una nera ombra di sonno;

nel lungo giorno; e poi languì, ché forse

era già sera, e forse già sul mare

tremolava la stella Espero, e forse

la luna piena già sorgea dai monti;

ed allora una voce ecco al cavallo

girare attorno, che sonava al cuore

come la voce dolce più che niuna,

come ad ognuno suona al cuor sol una

 

II

 

Era la donna amata, era la donna

lontana, accorsa, in quella ora di morte,

da molta ombra di monti, onda di mari:

sbalzò ciascuno quasi a porre il piede

su l'inverdita soglia della casa.

Ma tutti un cenno di Odisseo contenne:

Antìclo, no. Poi ch'era forte Antìclo,

sì, ma per forza; e non avea la gloria

loquace a cuore, ma la casa e l'orto

d'alberi lunghi e il solatìo vigneto

e la sua donna. E come udì la voce

della sua donna, egli sbalzò d'un tratto

su molta onda di mari, ombra di monti;

udì lei nelle stanze alte il telaio

spinger da sé, scendere l'ardue scale;

e schiuso il luminoso uscio chiamare

lui che la bocca aprì, tutta, e vi strinse

il grave pugno di Odisseo Cent'arte;

e sentì nella conca dell'orecchio

sibilar come raffica marina:

Helena! Helena! è la Morte, infante!

 

III

 

Ma quella voce gli restò nel cuore:;

e quando uscì con gli altri eroi - la luna

piena pendeva in mezzo della notte -

gli nereggiava di grande ira il cuore;

e per tutto egli uccise, arse, distrusse.

Gittò nel fuoco i tripodi di bronzo,

spinse nel seno alle fanciulle il ferro;

ché non prede voleva; egli voleva

udir, tra grida e gemiti e singulti,

la voce della sua donna lontana.

Ma era nella sacra Ilio il nemico

di gloria Antìclo, non in Arne ancora,

fertile d'uva, o in Aliarto erboso:

e in un vortice rosso Ilio vaniva

a' piè del plenilunïo sereno.

Morti i guerrieri, giù nelle macerie

fumide i Danai ne battean gl'infanti,

alle lor navi ne rapian le donne:

e d'Ilio in fiamme al cilestrino mare,

dalle Porte al Sigeo bianco di luna,

passavano con lunghi ululi i carri.

 

IV

 

Ma non ancora alle Sinistre Porte

Antìclo eroe dalla città giungeva.

Lì l'auriga attendeva il suo guerriero

insanguinato; e oro e bronzo, il carro,

e la giovane schiava alto gemente.

Voto era il carro, solo era l'auriga:

legati con le briglie abili al tronco

del caprifico, in cui fischiava il vento,

i due cavalli battean l'ugne a terra,

fiutando il sangue, sbalzando alle vampe.

Ma non giungeva Antìclo: egli giaceva

sul nero sangue, presso l'alta casa

di Deifobo. E dentro eravi ancora

fremere d'ira, strepere di ferro:

poi che, intorno all'amante ultimo, ancora

gli eroi venuti con le mille navi,

Locri, Etoli, Focei, Dolopi, Abanti,

contendean ai Troiani Helena Argiva;

tutti per lei si percotean con l'aste

i vestiti di bronzo e i domatori

di cavalli; e le loro aste, stridendo,

rigavano di lunghe ombre le fiamme.

 

V

 

Ma pensava alla sua donna morendo

Antìclo, presso l'atrïo sonoro

dell'alta casa. E divampò la casa

come un gran pino; ed al bagliore Antìclo

vide Lèito eroe sul limitare.

Rapido a nome lo chiamò: gli disse:

Lèito figlio d'Alectryone, trova

nell'alta casa il vincitore Atride,

di cui s'ode il feroce urlo di guerra.

Digli che fugge alle mie vene il sangue

sì come il vino ad un cratere infranto.

E digli che per lui muoio e che muoio

per la sua donna, ed ho la mia nel cuore.

Che venga la divina Helena, e parli

a me la voce della mia lontana:

parli la voce dolce più che niuna,

come ad ognuno suona al cuor sol una.

 

VI

 

Disse, e la casa entrò Lèito, e seguiva

tra le fiamme il feroce urlo di guerra,

che come tacque, egli trovò l'Atride

poggiato all'asta dalla rossa punta,

dritto, col piede sopra il suo nemico.

E contro gli sedeva Helena Argiva,

tacita, sopra l'alto trono d'oro;

e lo sgabello aveva sotto i piedi.

E Lèito disse al vincitore Atride:

Uno mi manda, da cui fugge il sangue

sì come il vino da cratere infranto:

Antìclo, che muore per te, che muore

per la tua donna, ed ha la sua nel cuore.

Oh! vada la divina Helena, e parli

a lui la voce della sua lontana,

la voce dolce forse più che niuna,

e come suona forse al cuor sol una.

 

VII

 

E così, mentre già moriva Antìclo,

veniva a lui con mute orme di sogno

Helena. Ardeva intorno a lei l'incendio,

su l'incendio brillava il plenilunio.

Ella passava tacita e serena,

come la luna, sopra il fuoco e il sangue.

Le fiamme, un guizzo, al suo passar, più alto;

spremeano un rivo più sottil le vene.

E scrosciavano l'ultime muraglie,

e sonavano gli ultimi singulti.

Stette sul capo al moribondo Antìclo

pensoso della sua donna lontana.

Tacquero allora intorno a lei gli eroi

rauchi di strage, e le discinte schiave.

E già la bocca apriva ella a chiamarlo

con la voce lontana, con la voce

della sua donna, che per sempre seco

egli nell'infinito Hade portasse;

la rosea bocca apriva già; quand'egli

- No - disse: - voglio ricordar te sola. -

 

 

IL SONNO DI ODISSEO

 

I

 

Per nove giorni, e notte e dì, la nave

nera filò, ché la portava il vento

e il timoniere, e ne reggeva accorta

la grande mano d'Odisseo le scotte;

né, lasso, ad altri le cedea, ché verso

la cara patria lo portava il vento.

Per nove giorni, e notte e dì, la nera

nave filò, né l'occhio mai distolse

l'eroe, cercando l'isola rupestre

tra il cilestrino tremolìo del mare;

pago se prima di morir vedesse

balzarne in aria i vortici del fumo.

Nel decimo, là dove era vanito

il nono sole in un barbaglio d'oro,

ora gli apparse non sapea che nero:

nuvola o terra? E gli balenò vinto

dall'alba dolce il grave occhio: e lontano

s'immerse il cuore d'Odisseo nel sonno.

 

II

 

E venne incontro al volo della nave,

ecco, una terra, e veleggiava azzurra

tra il cilestrino tremolìo del mare;

e con un monte ella prendea del cielo,

e giù dal monte spumeggiando i botri

scendean tra i ciuffi dell'irsute stipe;

e ne' suoi poggi apparvero i filari

lunghi di viti, ed a' suoi piedi i campi

vellosi della nuova erba del grano:

e tutta apparve un'isola rupestre,

dura, non buona a pascere polledri,

ma sì di capre e sì di buoi nutrice:

e qua e là sopra gli aerei picchi

morian nel chiaro dell'aurora i fuochi

de' mandrïani; e qua e là sbalzava

il mattutino vortice del fumo,

d'Itaca, alfine: ma non già lo vide

notando il cuore d'Odisseo nel sonno.

 

III

 

Ed ecco a prua dell'incavata nave

volar parole, simili ad uccelli,

con fuggevoli sibili. La nave

radeva allora il picco alto del Corvo

e il ben cerchiato fonte; e se n'udiva

un grufolare fragile di verri;

ed ampio un chiuso si scorgea, di grandi

massi ricinto ed assiepato intorno

di salvatico pero e di prunalbo;

ed il divino mandrïan dei verri,

presso la spiaggia, della nera scorza

spogliava con l'aguzza ascia un querciolo,

e grandi pali a rinforzare il chiuso

poi ne tagliò coi morsi aspri dell'ascia;

e sì e no tra lo sciacquìo dell'onde

giungeva al mare il roco ansar dei colpi,

d'Eumeo fedele: ma non già li udiva

tuffato il cuore d'Odisseo nel sonno.

 

IV

 

E già da prua, sopra la nave, a poppa,

simili a freccie, andavano parole

con fuggevoli fremiti. La nave

era di faccia al porto di Forkyne;

e in capo ad esso si vedea l'olivo,

grande, fronzuto, e presso quello un antro:

l'antro d'affaccendate api sonoro,

quando in crateri ed anfore di pietra

filano la soave opra del miele:

e si scorgeva la sassosa strada

della città: si distinguea, tra il verde

d'acquosi ontani, la fontana bianca

e l'ara bianca, ed una eccelsa casa:

l'eccelsa casa d'Odisseo: già forse

stridea la spola fra la trama, e sotto

le stanche dita ricrescea la tela,

ampia, immortale... Oh! non udì né vide

perduto il cuore d'Odisseo nel sonno.

 

V

 

E su la nave, nell'entrare il porto,

il peggio vinse: sciolsero i compagni

gli otri, e la furia ne fischiò dei venti:

la vela si svoltò, si sbatté, come

peplo, cui donna abbandonò disteso

ad inasprire sopra aereo picco:

ecco, e la nave lontanò dal porto;

e un giovinetto stava già nel porto,

poggiato all'asta dalla bronzea punta:

e il giovinetto sotto il glauco olivo

stava pensoso; ed un veloce cane

correva intorno a lui scodinzolando:

e il cane dalle volte irrequïete

sostò, con gli occhi all'infinito mare;

e com'ebbe le salse orme fiutate,

ululò dietro la fuggente nave:

Argo, il suo cane: ma non già l'udiva

tuffato il cuore d'Odisseo nel sonno.

 

VI

 

E la nave radeva ora una punta

d'Itaca scabra. E tra due poggi un campo

era, ben culto; il campo di Laerte;

del vecchio re; col fertile pometo;

coi peri e meli che Laerte aveva

donati al figlio tuttavia fanciullo;

ché lo seguiva per la vigna, e questo

chiedeva degli snelli alberi e quello:

tredici peri e dieci meli in fila

stavano, bianchi della lor fiorita:

all'ombra d'uno, all'ombra del più bianco,

era un vecchio, poggiato su la marra:

il vecchio, volto all'infinito mare

dove mugghiava il subito tumulto,

limando ai faticati occhi la luce,

riguardò dietro la fuggente nave:

era suo padre: ma non già lo vide

notando il cuore d'Odisseo nel sonno.

 

VII

 

Ed i venti portarono la nave

nera più lungi. E subito aprì gli occhi

l'eroe, rapidi aprì gli occhi a vedere

sbalzar dalla sognata Itaca il fumo;

e scoprir forse il fido Eumeo nel chiuso

ben cinto, e forse il padre suo nel campo

ben culto: il padre che sopra la marra

appoggiato guardasse la sua nave;

e forse il figlio che poggiato all'asta

la sua nave guardasse: e lo seguiva,

certo, e intorno correa scodinzolando

Argo, il suo cane; e forse la sua casa,

la dolce casa ove la fida moglie

già percorreva il garrulo telaio:

guardò: ma vide non sapea che nero

fuggire per il violaceo mare,

nuvola o terra? e dileguar lontano,

emerso il cuore d'Odisseo dal sonno.

 

 

L'ULTIMO VIAGGIO

 

         I

LA PALA

 

Ed il timone al focolar sospese

in Itaca l'Eroe navigatore.

Stanco giungeva da un error terreno,

grave ai garretti, ch'egli avea compiuto

reggendo sopra il grande omero un remo.

Quelli cercava che non sanno il mare

né navi nere dalle rosse prore,

e non miste di sale hanno vivande.

E già più lune s'erano consunte

tra scabre rupi, nel cercare in vano

l'azzurro mare in cui tuffar la luce;

né da gran tempo più sentiva il cielo

l'odor di sale, ma l'odor di verde:

quando gli occorse un altro passeggero,

che disse; e il vento che ululò notturno,

si dibatteva, intorno loro, ai monti,

come orso in una fossa alta caduto:

«Uomo straniero, al re tu muovi? Oh! tardo!

Al re, già mondo è nel granaio il grano.

Un dio mandò quest'alito, che soffia

anc'oggi, e ieri ventilò la lolla.

Oggi, o tarda opra, vana è la tua pala».

Disse; ma il cuore tutto rise accorto

all'Eroe che pensava le parole

del morto, cieco, dallo scettro d'oro.

Ché cieco ei vede, e tutto sa pur morto:

tra gli alti pioppi e i salici infecondi,

nella caligo, egli, bevuto al botro

il sangue, disse: «Misero, avrai pace

quando il ben fatto remo della nave

ti sia chiamato un distruttor di paglie».

Ed ora il cuore, a quel pensier, gli rise

E disse: «Uomo terrestre, ala! non pala!

Ma sia. Ben ora qui fermarla io voglio

nella compatta aridità del suolo.

Un fine ha tutto. In ira a un dio da tempo

io volo foglia a cui s'adira il vento».

E l'altro ancora ad Odisseo parlava:

«Chi, donde sei degli uomini? venuto

come, tra noi? Non già per l'aere brullo,

come alcuno dei cigni longicolli,

ma scambiando tra loro i due ginocchi.

Parlami, e narra senza giri il vero».

 

     II

L'ALA

 

E rispose l'Eroe molto vissuto:

«Tutto ti narro senza giri il vero.

Sono, a voi sconosciuti, uomini, anch'essi

mortali sì, ma, come dei, celesti,

che non coi piedi, come i lenti bovi,

vanno, e con la vicenda dei ginocchi,

ma con la spinta delle aeree braccia,

come gli uccelli, ed hanno il color d'aria

sotto sé, vasto. Io vidi viaggiando

sbocciar le stelle fuor del cielo infranto,

sotto questi occhi, e il guidator del Carro

venir con me fischiando ai buoi lontano,

e l'auree rote lievi sbalzar sulla

tremola ghiaia della strada azzurra.

Né sempre l'ali noi tra cielo e cielo

battiamo: spesso noi prendiamo il vento:

a mezzo un ringhio acuto, per le froge

larghe prendiamo il vano vento folle,

che ci conduca, e con la forte mano

le briglie io reggo per frenarlo al passo.

Ma un dio ce n'odia, come voi la terra

odia, che voi sostenta sì, ma spezza.

Ch'ha tutto un fine. Or tu fa che un torello

dal re mi venga, ed un agnello e un verro;

che qui ne onori quell'ignoto iddio».

E l'altro ancora rispondea stupito:

«L'ignoto è grande, e grande più, se dio.

Or vieni al re, che raddolcito ha il cuore

oggi, che il grano gli avanzò le corbe».

Così l'eroe divino in una forra

selvosa il remo suo piantò, la lieve

ala incrostata dalla salsa gromma.

Al dio sdegnato per il suo Ciclope,

egli uccise un torello ed un agnello

e terzo un verro montator di scrofe;

e poi discese, e insieme a lui più lune

vennero, e l'una dopo l'altra ognuna

sé, girando tra roccie aspre, consunse.

L'ultima, piena tremolò sul mare

riscintillante, e su la bianca sabbia,

piccola e nera gli mostrò la nave,

e i suoi compagni, ch'attendean guardando

a monte, muti. Ed ei salpò. Sbalzare

vide ancora le rote auree del Carro

sopra le ghiaie dell'azzurra strada:

rivide il fumo salir su, rivide

Itaca scabra, e la sua grande casa.

Dove il timone al focolar sospese.

 

                    III

LE GRU NOCCHIERE

 

E un canto allora venne a lui dall'alto,

di su le nubi, di raminghe gru.

– Sospendi al fumo ora il timone, e dormi.

Le Gallinelle fuggono lo strale

già d'Orïone, e son cadute in mare.

Rincalza su la spiaggia ora la nave

nera con pietre, che al ventar non tremi,

Eroe; ché sono per soffiare i venti.

L'alleggio della stiva apri, che l'acqua

scoli e non faccia poi funghir le doghe,

Eroe; ché sono per cader le pioggie.

Sospendi al fumo ora il timone, e in casa

tieni all'asciutto i canapi ritorti,

ogni arma, ogni ala della nave, e dormi.

Ché viene il verno, viene il freddo acuto

che fa nei boschi bubbolar le fiere

che fuggono irte con la coda al ventre:

quando a tre piedi, il filo della schiena

rotto a metà, la grigia testa bassa,

il vecchio va sotto la neve bianca;

e il randagio pitocco entra dal fabbro,

nella fucina aperta, e prende sonno

un poco al caldo tra l'odor di bronzo.

Navigatore di cent'arti, dormi

nell'alta casa, o, se ti piace, solca

ora la terra, dopo arata l'onda. –

Questo era canto che rodeva il cuore

del timoniere, che volgea la barra

verso un approdo, e tedio avea dell'acqua;

ché passavano, agli uomini gridando

giunto il maltempo, venti nevi pioggie,

e lo sparire delle stelle buone;

e tra le nubi esse con fermo cuore,

gittando rauche grida alla burrasca,

andavano, e coi remi battean l'aria.

 

                  IV

LE GRU GUERRIERE

 

Dicean, – Dormi – al nocchiero – Ara, al villano,

di su le nubi, le raminghe gru.

– Ara: la stanga dell'aratro al giogo

lega dei bovi; ché tu n'hai, ben d'erbe

sazi, in capanna, o figlio di Laerte.

Fatti col cuoio d'un di loro, ucciso,

un paio d'uose, che difenda il freddo,

ma prima il dentro addenserai di feltro;

e cucirai coi tendini del bove

pelli de' primi nati dalle capre,

che a te dall'acqua parino le spalle;

e su la testa ti porrai la testa

d'un vecchio lupo, che ti scaldi, e i denti

bianchi digrigni tra il nevischio e i venti.

Arare il campo, non il mare, è tempo,

da che nel cielo non si fa vedere

più quel branchetto delle sette stelle.

Sessanta giorni dopo volto il sole,

quando ritorni il conduttor del Carro,

allor dolce è la brezza, il mare è calmo;

brilla Boote a sera, e sul mattino

tornata già la rondine cinguetta,

che il mare è calmo e che dolce è la brezza.

La brezza chiama a sé la vela, il mare

chiama a sé il remo; e resta qua canoro

il cuculo a parlare al vignaiolo. –

Questo era canto che mordeva il cuore

a chi non bovi e sol avea l'aratro;

ch'egli ha bel dire, Prestami il tuo paro!

Son le faccende, ed ora ogni bifolco

semina, e poi, sicuro della fame,

ode venti fischiare, acque scrosciare,

ilare. E intanto esse, le gru, moveano

verso l'Oceano, a guerra, in righe lunghe,

empiendo il cielo d'un clangor di trombe.

 

                    V

IL REMO CONFITTO

 

E per nove anni al focolar sedeva,

di sua casa, l'Eroe navigatore:

ché più non gli era alcuno error marino

dal fato ingiunto e alcuno error terrestre.

Sì, la vecchiaia gli ammollia le membra

a poco a poco. Ora dovea la morte

fuori del mare giungergli, soave,

molto soave, e né coi dolci strali

dovea ferirlo, ma fiatar leggiera

sopra la face cui già l'uragano

frustò, ma fece divampar più forte.

E i popoli felici erano intorno,

che il figlio, nato lungi alle battaglie,

savio reggeva in abbondevol pace.

Crescean nel chiuso del fedel porcaio

floridi i verri dalle bianche zanne,

e nei ristretti pascoli più tanti

erano i bovi dalle larghe fronti,

e tante più dal Nerito le capre

pendean strappando irsuti pruni e stipe,

e molto sotto il tetto alto giaceva

oro, bronzo, olezzante olio d'oliva.

Ma raro nella casa era il convito,

né più sonava l'ilare tumulto

per il grande atrio umbratile; ché il vecchio

più non bramava terghi di giovenco,

né coscie gonfie d'adipe, di verro;

amava, invano, la fioril vivanda,

il dolce loto, cui chi mangia, è pago,

né altro chiede che brucar del loto.

Così le soglie dell'eccelsa casa

or d'Odissèo dimenticò l'aedo

dai molti canti, e il lacero pitocco,

che l'un corrompe e l'altro orna il convito.

E il Laertiade ora vivea solingo

fuori del mare, come il vecchio remo

scabro di salsa gromma, che piantato

lungi avea dalle salse aure nel suolo,

e strettolo, ala, tra le glebe gravi.

E il grigio capo dell'Eroe tremava,

avanti al mormorare della fiamma,

come là, nella valle solitaria,

quel remo al soffio della tramontana.

 

                 VI

IL FUSO AL FUOCO

 

E per nove anni ogni anno udì la voce,

di su le nubi, delle gru raminghe

che diceano – Ara – che diceano – Dormi –;

ed alternando squilli di battaglia

coi remi in lunghe righe battean l'aria:

– mentre noi guerreggiamo, ara, o villano;

dormi, o nocchiero, noi veleggeremo. –

E il canto il cuore dell'Eroe mangiava,

chiuso alle genti come un aratore

cui per sementa mancano i due bovi.

Sedeva al fuoco, e la sua vecchia moglie,

la bene oprante, contro lui sedeva,

tacita. E per le fauci del camino

fuligginose, allo spirar de' venti

umidi, ardeano fisse le faville;

ardean, lievi sbraciando, le faville

sul putre dorso dei lebeti neri.

Su quelle intento si perdea con gli occhi

avvezzi al cielo il corridor del mare.

E distingueva nel sereno cielo

le fuggitive Pleiadi e Boote

tardi cadente e l'Orsa, anche nomata

il Carro, che lì sempre si rivolge,

e sola è sempre del nocchier compagna.

E il fulgido Odisseo dava la vela

al vento uguale, e ferree avea le scotte,

e i buoni suoi remigatori stanchi

poneano i remi lungo le scalmiere.

La nave con uno schioccar di tela

correa da sé nella stellata notte,

e prendean sonno i marinai su i banchi,

e lei portava il vento e il timoniere.

L'Eroe giaceva in un'irsuta pelle,

sopra coperta, a poppa della nave,

e, dietro il capo, si fendeva il mare

con lungo scroscio e subiti barbagli.

Egli era fisso in alto, nelle stelle,

ma gli occhi il sonno gli premea, soave,

e non sentiva se non sibilare

la brezza nelle sartie e nelli stragli.

E la moglie appoggiata all'altro muro

faceva assiduo sibilare il fuso.

 

            VII

LA ZATTERA

 

E gli dicea la veneranda moglie:

«Divo Odisseo, mi sembra oggi quel giorno

che ti rividi. Io ti sedea di contro,

qui, nel mio seggio. Stanco eri di mare,

eri, divo Odisseo, sazio di sangue!

Come ora. Muto io ti vedeva al lume

del focolare, fissi gli occhi in giù».

Fissi in giù gli occhi, presso la colonna,

egli taceva: ché ascoltava il cuore

suo che squittiva come cane in sogno.

E qualche foglia d'ellera sul ciocco

secco crocchiava, e d'uno stizzo il vento

uscìa fischiando; ma l'Eroe crocchiare

udiva un po' la zattera compatta,

opera sua nell'isola deserta.

Su la decimottava alba la zattera

egli sentì brusca salire al vento

stridulo; e l'uomo su la barca solo

era, e sola la barca era sul mare:

soli con qualche errante procellaria.

E di là donde tralucea già l'alba

ora appariva una catena fosca

d'aeree nubi, e torbide a prua l'onde

picchiavano; ecco e si sventò la vela.

E l'uomo allora udì di contro un canto

di torte conche, e divinò che dietro

quelle il nemico, il truce dio del mare,

venìa tornando ai suoi cerulei campi.

Lui vide, e rise il dio con uno schianto

secco di tuono che rimbombò tetro;

e venne. Udiva egli lo sciabordare

delle ruote e il nitrir degli ippocampi.

E volavano al cielo alto le schiume

dalle lor bocche masticanti il morso;

e l'uragano fumido di sghembo

sferzava lor le groppe di serpente.

Soli nel mare erano l'uomo e il nume

e il nume ergeva su l'ondate il torso

largo, e scoteva il gran capo; e tra il nembo

folgoreggiava il lucido tridente.

E il Laertiade al cuore suo parlava,

ch'altri non v'era; e sotto avea la barra.

 

         VIII

LE RONDINI

 

E per nove anni egli aspettò la morte

che fuor del mare gli dovea soave

giungere; e sì, nel decimo, su l'alba,

giunsero a lui le rondini, dal mare.

Egli dormia sul letto traforato

cui sosteneva un ceppo d'oleastro

barbato a terra; e marinai sognava

parlare sparsi per il mare azzurro.

E si destò con nell'orecchio infuso

quel vocìo fioco; ed ascoltò seduto:

erano rondini, e sonava intorno

l'umbratile atrio per il lor sussurro.

E si gittò sugli Omeri le pelli

caprine, ai piedi si legò le dure

uose bovine: e su la testa il lupo

facea nell'ombra biancheggiar le zanne.

E piano uscì dal talamo, non forse

udisse il lieve cigolio la moglie;

ma lei teneva un sonno alto, divino,

molto soave, simile alla morte.

E il timone staccò dal focolare,

affumicato, e prese una bipenne.

Ma non moveva il molto accorto al mare,

subito, sì per colli irti di quercie,

per un vïotterello aspro, e mortali

trovò ben pochi per la via deserta;

e disse a un mandriano segaligno,

che per un pioppo secco era la scure;

e disse ad una riccioluta ancella,

che per uno stabbiolo era il timone:

così parlava il tessitor d'inganni,

e non senz'ali era la sua parola.

E poi soletto deviò volgendo

l'astuto viso al fresco alito salso.

Le quercie ai piedi gli spargean le foglie

roggie che scricchiolavano al suo passo.

Gemmava il fico, biancheggiava il pruno,

e il pero avea ne' rosei bocci il fiore.

E di su l'alto Nerito il cuculo

contava arguto il su e giù de l'onde.

E già l'Eroe sentiva sotto i piedi

non più le foglie ma scrosciar la sabbia;

né più pruni fioriti, ma vedeva

i giunchi scabri per i bianchi nicchi;

e infine apparve avanti al mare azzurro

l'Eroe vegliardo col timone in collo

e la bipenne; e l'inquieto mare,

mare infinito, fragoroso mare,

su la duna lassù lo riconobbe

col riso innumerevole dell'onde.

 

              IX

IL PESCATORE

 

Ma lui vedendo, ecco di subito una

rondine deviò con uno strillo.

Ch'ella tornava. Ora Odisseo con gli occhi

cercava tutto il grigio lido curvo,

s'egli vedesse la sua nave in secco.

Ma non la vide; e vide un uomo, un vecchio

di triti panni, chino su la sabbia

raspare dove boccheggiava il mare

alternamente. A lui fu sopra, e disse:

«Abbiamo nulla, o pescator di rena?

Ben vidi, errando su la nave nera,

uomo seduto in uno scoglio aguzzo

reggere un filo pendulo sul flutto;

ma il lungo filo tratto giù dal piombo

porta ai pesci un adunco amo di bronzo

che sì li uncina; e ne schermisce il morso

un liscio cerchio di bovino corno.

Ché l'uomo, quando è roso dalla fame,

mangia anche il sacro pesce che la carne

cruda divora. Io vidi, anzi, mortali

gittar le reti dalle curve navi,

sempre alïando sui pescosi gorghi,

come le folaghe e gli smerghi ombrosi.

E vidi i pesci nella grigia sabbia

avvoltolarsi, per desìo dell'acqua,

versati fuori della rete a molte

maglie; e morire luccicando al sole.

Ma non vidi senz'amo e senza rete

niuno mai fare tali umide prede,

o vecchio, e niuno farsi mai vivanda

di tali scabre chiocciole dell'acqua,

che indosso hanno la nave, oppur dei granchi,

che indosso hanno l'incudine dei fabbri».

E il malvestito al vecchio Eroe rispose:

«Tristo il mendico che al convito sdegna

cibo che lo scettrato re gli getta,

sia tibia ossuta od anche pingue ventre.

Ché il Tutto, buono, ha tristo figlio: il Niente.

Prendo ciò che il mio grande ospite m'offre,

che dona, cupo brontolando in cuore,

ma dona: il mare fulgido e canoro,

ch'è sordo in vero, ma più sordo è l'uomo».

Or al mendico il vecchio Eroe rispose:

«O non ha la rupestre Itaca un buono

suo re ch'ha in serbo molto bronzo e oro?

che verri impingua, negli stabbi, e capre?

cui molto odora nei canestri il pane?

Non forse il senno d'Odisseo qui regge,

che molto errò, molto in suo cuor sofferse?

e fu pitocco e malvestito anch'esso.

Non sai la casa dal sublime tetto,

del Laertiade fulgido Odisseo?»

 

                 X

LA CONCHIGLIA

 

Il malvestito non volgeva il capo

dal mare alterno, ed al ricurvo orecchio

teneva un'aspra tortile conchiglia,

come ascoltasse. Or all'Eroe rispose:

«O Laertiade fulgido Odisseo,

so la tua casa. Ma non io pitocco

querulo sono, poi che fui canoro

eroe, maestro io solo a me. Trovai

sparsi nel cuore gl'infiniti canti.

A te cantai, divo Odisseo, da quando

pieno di morti fu l'umbratile atrio,

simili a pesci quali il pescatore

lasciò morire luccicando al sole.

E vedo ancor le schiave moriture

terger con acqua e con porose spugne

il sangue, e molto era il singulto e il grido.

A te cantavo, e tu bevendo il vino

cheto ascoltavi. E poi t'increbbe il detto

minor del fatto. Ascolto or io l'aedo,

solo, in silenzio. Ché gittai la cetra,

io. La raccolse con la mano esperta

solo di scotte un marinaio, un vecchio

dagli occhi rossi. Or chi la tocca? Il vento.

Or all'Aedo il vecchio Eroe rispose:

Terpiade Femio, e me vecchiezza offese

e te: ché tolse ad ambedue piacere

ciò che già piacque. Ma non mai che nuova

non mi paresse la canzon più nuova

di Femio, o Femio; più nuova e più bella:

m'erano vecchie d'Odisseo le gesta.

Sonno è la vita quando è già vissuta:

sonno; ché ciò che non è tutto, è nulla.

Io, desto alfine nella patria terra,

ero com'uomo che nella novella

alba sognò, né sa qual sogno, e pensa

che molto è dolce a ripensar qual era.

Or io mi voglio rituffar nel sonno,

s'io trovi in fondo dell'oblio quel sogno.

Tu verrai meco. Ma mi narra il vero:

qual canto ascolti, di qual dolce aedo?

Ch'io non so, nella scabra isola, che altri

abbia nel cuore inseminati i canti».

E il vecchio Aedo al vecchio Eroe rispose:

«Questo, di questo. Un nicchio vile, un lungo

tortile nicchio, aspro di fuori, azzurro

di dentro, e puro, non, Eroe, più grande

del nostro orecchio; e tutto ha dentro il mare,

con le burrasche e le ritrose calme,

coi venti acuti e il ciangottìo dell'acque.

Una conchiglia, breve, perché l'oda

il breve orecchio, ma che il tutto v'oda;

tale è l'Aedo. Pure a te non piacque».

Con un sorriso il vecchio Eroe rispose:

«Terpiade Femio, assai più grande è il mare!»

 

                   XI

LA NAVE IN SECCO

 

E il vecchio Aedo e il vecchio Eroe movendo

seguian la spiaggia del sonante mare,

molto pensando, e là, sul curvo lido,

piccola e nera, apparve lor la nave.

Vedean la poppa, e n'era lunga l'ombra

sopra la sabbia; né molt'alto il sole.

E sopra lei bianchi tra mare e cielo

galleggiavano striduli gabbiani.

E vide l'occhio dell'Eroe che fresca

era la pece: e vide che le pietre

giaceano in parte, ché placato il vento

già non faceva più brandir la nave;

e vide in giro dagli scalmi acuti

pender gli stroppi di bovino cuoio;

e vide dal righino alto di poppa

sporger le pale di ben fatti remi.

Gli rise il cuore, poi che pronta al corso

era la nave; e le moveva intorno,

come al carro di guerra agile auriga

prima di addurre i due cavalli al giogo.

E venuto alla prua rossa di minio,

sopra la sabbia vide assisi in cerchio

i suoi compagni tutti volti al mare

tacitamente; e si godeano il sole,

e la primaverile brezza arguta

s'udian fischiare nelle bianche barbe.

Sedean come per uso i longiremi

vecchi compagni d'Odisseo sul lido,

e da dieci anni lo attendean sul mare

col tempo bello e con la nuova aurora.

E veduta la rondine, le donne

recavano alla nave alte sul capo

l'anfore piene di fiammante vino

e pieni d'orzo triturato gli otri.

E prima che la nuova alba spargesse

le rose in cielo, essi veniano al mare,

i longiremi d'Odisseo compagni,

reggendo sopra il forte omero i remi,

ognuno il suo. Poi su la rena assisi

stavano, sotto la purpurea prora,

con gli occhi rossi a numerar le ondate,

ad ascoltarsi il vento nelle barbe,

ad ascoltare striduli gabbiani,

cantare in mare marinai lontani.

Poi quando il sole si tuffava e quando

sopra venia l'oscurità, ciascuno

prendeva il remo, ed alle sparse case

tornavan muti per le strade ombrate.

 

          XII

IL TIMONE

 

Ed ecco, appena il vecchio Eroe comparve

sorsero tutti, fermi in lui con gli occhi.

Come quando nel verno ispido i bovi

giacciono, avvinti, innanzi al lor presepe;

sdraiati a terra ruminano il pasto

povero, mentre frusciano l'acquate;

se con un fascio d'odoroso fieno

viene il bifolco, sorgono, pur lenta-

mente, né gli occhi stolgono dal fascio:

così sorsero i vecchi, ma nessuno

gli andava, stretto da pudor, più presso.

Ed egli, sotto il teschio irto del lupo,

così parlò tra lo sciacquìo del mare:

«Compagni, udite ciò che il cuor mi chiede

sino da quando ritornai per sempre.

Per sempre? chiese, e, No, rispose il cuore.

Tornare, ei volle; terminar, non vuole.

Si desse, giunti alla lor selva, ai remi

barbàre in terra e verzicare abeti!

Ma no! Né può la nera nave al fischio

del vento dar la tonda ombra di pino.

E pur non vuole il rosichìo del tarlo,

ma l'ondata, ma il vento e l'uragano.

Anch'io la nube voglio, e non il fumo;

il vento, e non il sibilo del fuso,

non l'odïoso fuoco che sornacchia,

ma il cielo e il mare che risplende e canta.

Compagni, come il nostro mare io sono,

ch'è bianco all'orlo, ma cilestro in fondo.

Io non so che, lasciai, quando alla fune

diedi, lo stolto che pur fui, la scure;

nell'antro a mare ombrato da un gran lauro,

nei prati molli di viola e d'appio,

o dove erano cani d'oro a guardia,

immortalmente, della grande casa,

e dove uomini in forma di leoni

battean le lunghe code in veder noi,

o non so dove. E vi ritorno. Io vedo

che ciò che feci è già minor del vero.

Voi lo sapete, che portaste al lido

negli otri l'orzo triturato, e il vino

color di fiamma nel ben chiuso doglio,

che l'uno è sangue e l'altro a noi midollo.

E spalmaste la pece alla carena,

ch'è come l'olio per l'ignudo atleta;

e portaste le gomene che serpi

dormono in groppo o sibilano ai venti;

e toglieste le pietre, anche portaste

l'aerea vela; alla dormente nave,

che sempre sogna nel giacere in secco,

portaste ognun la vostra ala di remo;

e ora dunque alla ben fatta nave

che manca più, vecchi compagni? Al mare

la vecchia nave: amici, ecco il timone».

Così parlò tra il sussurrìo dell'onde.

 

            XIII

LA PARTENZA

 

Ed ecco a tutti colorirsi il cuore

dell'azzurro color di lontananza;

e vi scorsero l'ombra del Ciclope

e v'udirono il canto della Maga:

l'uno parava sufolando al monte

pecore tante, quante sono l'onde;

l'altra tessea cantando l'immortale

sua tela così grande come il mare.

E tutti al mare trassero la nave

su travi tonde, come su le ruote;

e avvinsero gli ormeggi ad un lentisco

che verzicava sopra un erto scoglio;

e già salito, il vecchio Eroe nell'occhio

fece passar la barra del timone;

e stette in piedi sopra la pedagna.

Era seduto presso lui l'Aedo.

E con un cenno fece ai remiganti

salir la nave ed impugnare il remo.

Egli tagliò la fune con la scure.

E cantava un cuculo tra le fronde,

cantava nella vigna un potatore,

passava un gregge lungo su la rena

con incessante gemere d'agnelli,

ricciute donne in lavatoi perenni

batteano a gara i panni alto cianciando

e dalle case d'Itaca rupestre

balzava in alto il fumo mattutino.

E i marinai seduti alle scalmiere

facean coi remi biancheggiar il flutto.

E Femio vide sopra un alto groppo

di cavi attorti la vocal sua cetra,

la cetra ch'egli avea gittata, e un vecchio

dagli occhi rossi lieto avea raccolta

e portata alla nave, ai suoi compagni;

ed era a tutti, l'aurea cetra, a cuore,

come a bambino infante un rondinotto

morto, che così morto egli carezza

lieve con dita inabili e gli parla,

e teme e spera che gli prenda il volo.

E Femio prese la sua cetra, e lieve

la toccò, poi, forte intonò la voga

ai remiganti. E quell'arguto squillo

svegliò nel cuore immemore dei vecchi

canti sopiti; e curvi sopra i remi

cantarono con rauche esili voci.

– Ecco la rondine! Ecco la rondine! Apri!

ch'ella ti porta il bel tempo, i belli anni.

È nera sopra, ed il suo petto è bianco.

È venuta da uno che può tanto.

Oh! apriti da te, uscio di casa,

ch'entri costì la pace e l'abbondanza,

e il vino dentro il doglio da sé vada

e il pane d'orzo empia da sé la madia.

Uno anc'a noi, col sesamo, puoi darne!

Presto, ché non siam qui per albergare.

Apri, ché sto su l'uscio a piedi nudi!

Apri, ché non siam vecchi ma fanciulli! –

 

          XIV

IL PITOCCO

 

Cantavano; e il lor canto era fanciullo,

dei tempi andati; non sapean che quello.

E nella stiva in cui giaceva immerso

nel dolce sonno, si stirò le braccia

e si sfregò le palpebre coi pugni

Iro, il pitocco. E niuno lo sapeva

laggiù, qual grosso baco che si chiude

in un irsuto bozzolo lanoso,

forse a dormire. Ché solea nel verno

lì nella nave d'Odisseo dormire,

se lo cacciava dalla calda stalla

l'uomo bifolco, o s'ei temeva i cani

del pecoraio. Nella buona estate

dormia sotto le stelle alla rugiada.

Ora quivi obliava la vecchiaia trista

e la fame; quando il suono e il canto

lo destò. Dentro gli ondeggiava il cuore:

– Non odo il suono della cetra arguta?

Dunque non era sogno il mio, che or ora

portavo ai proci, ai proci morti, un messo:

ed ecco nell'opaco atrio la cetra

udivo, e le lor voci esili e rauche.

Invero udiva il tintinnio tuttora

e il canto fioco tra il fragor dell'onde,

qual di querule querule ranelle

per un'acquata, quando ancor c'è il sole.

E tra sé favellava Iro il pitocco:

– O son presso ad un vero atrio di vivi?

e forse alcuno mi tirò pel piede

sino al cortile, poi che la mascella

sotto l'orecchio mi fiaccò col pugno?

Come altra volta, che Odisseo divino

lottò con Iro, malvestiti entrambi.

Così pensando si rizzò sui piedi

e su le mani, e gli fiottava il capo,

e movendo traballava come ebbro

di molto vino; e ad Odisseo comparve,

nuotando a vuoto, ed ai remigatori,

terribile. Ecco e s'interruppe il canto,

e i remi alzati non ripreser l'acqua,

e la nave da prua si drizzò, come

cavallo indomito, e lanciò supino,

a piè di Femio e d'Odisseo seduti,

Iro il pitocco. E lo conobbe ognuno

quando, abbrancati i lor ginocchi, sorse

inginocchioni, e gli grondava il sangue

giù per il mento dalle labbra e il naso.

E un dolce riso si levò di tutti,

alto, infinito. Ed egli allor comprese,

e vide dileguare Itaca, e vide

sparir le case, onde balzava il fumo:

e le due coscie si percosse e pianse.

E sorridendo il vecchio Eroe gli disse:

«Soffri. Hai qui tetto e letto, e orzo e vino.

Sii nella nave il dispensier del cibo,

e bevi e mangia e dormi, Iro non-Iro».

 

            XV

LA PROCELLA

 

E sopra il flutto nove dì la nave

corse sospinta dal remeggio alato,

e notte e giorno, ché Odisseo due schiere

dinumerò degl'incliti compagni;

e l'una al sonno e l'altra era alla voga.

Nel decimo l'aurora mattiniera

a un lieve vento dispergea le rose.

Ei dalla scassa l'albero d'abete

levò, lo congegnò dentro la mastra,

e con drizze di cuoio alzò la vela,

ben torto, e saldi avvinse alle caviglie

di prua gli stragli, ma di poppa i bracci.

E il vento urtò la vela in mezzo, e il flutto

rumoreggiava intorno alla carena.

E legarono allora anche le scotte

lungo la nave che correa veloce:

e pose in mezzo un'anfora di vino

Iro il pitocco, ed arrancando intorno

lo ministrava ai marinai seduti;

e sorse un riso. E nove dì sul flutto

li resse in corsa il vento e il timoniere.

Nel decimo tra nubi era l'aurora,

e venne notte, ed una aspra procella

tre quattro strappi fece nella vela;

e il Laertiade ammainò la vela,

e disse a tutti di gettarsi ai remi;

ed essi curvi sopra sé di forza

remigavano. E nove dì sbalzati

eran dai flutti e da funesti venti.

Infine i venti rappaciati e i flutti,

sul far di sera, videro una spiaggia.

A quella spinse il vecchio Eroe la nave,

in un seno tranquillo come un letto.

E domati da sonno e da stanchezza,

dormian sul lido, ove batteva l'onda.

Ma non dormiva egli, Odisseo, pur vinto

dalla stanchezza. Ché pensava in cuore

d'essere giunto all'isola di Circe:

vedea la casa di pulite pietre,

come in un sogno, e sorgere leoni

lenti, e le rosse bocche allo sbadiglio

aprire, e un poco già scodinzolare;

e risonava il grande atrio del canto

di tessitrice. Ora Odisseo parlava:

«Terpiade Femio, dormi? Odimi: il sogno

dolce e dimenticato ecco io risogno!

Era l'amore; ch'ora mi sommuove,

come procella omai finita, il cuore».

Diceva; e nella notte alta e serena

dormiva il vento, e vi sorgea la falce,

su macchie e selve, della bianca luna

già presso al fine, e s'effondea l'olezzo

di grandi aperti calici di fiori

non mai veduti. Ed il gran mare ancora

si ricordava, e con le lunghe ondate

bianche di schiuma singhiozzava al lido.

 

         XVI

L'ISOLA EEA

 

E con la luce rosea dell'aurora

s'avvide, ch'era l'isola di Circe.

E disse a Femio, al molto caro Aedo:

«Terpiade Femio, vieni a me compagno

con la tua cetra, ch'ella oda il tuo canto

mortale, e tu l'eterno inno ne apprenda».

E disse ad Iro, dispensier del cibo:

«Con gli altri presso il grigio mar tu resta,

e mangia e bevi, ch'ella non ti batta

con la sua verga, e n'abbi poi la ghianda

per cibo, e pianga, sgretolando il cibo,

con altra voce, o Iro non-più-Iro».

Così diceva sorridendo, e mosse

col dolce Aedo, per le macchie e i boschi,

e vide il passo donde l'alto cervo

d'arboree corna era disceso a bere:

Ma non vide la casa alta di Circe.

Or a lui disse il molto caro Aedo:

«C'è addietro. Una tempesta è il desiderio,

ch'agli occhi è nube quando ai piedi è vento».

Ma il luogo egli conobbe, ove gli occorse

il dio che salva, e riconobbe il poggio

donde strappò la buona erba, che nera

ha la radice, e come latte il fiore.

E non vide la casa alta di Circe.

Or a lui disse il molto caro Aedo:

«C'è innanzi. La vecchiezza è una gran calma,

che molto stanca, ma non molto avanza».

E proseguì pei monti e per le valli,

e selve e boschi, attento s'egli udisse

lunghi sbadigli di leoni, désti

al lor passaggio, o l'immortal canzone

di tessitrice, della dea vocale.

E nulla udì nell'isola deserta,

e nulla vide; e si tuffava il sole,

e la stellata oscurità discese.

E l'Eroe disse al molto caro Aedo:

«Troppo nel cielo sono alte le stelle,

perché la strada io possa ormai vedere.

Or qui dormiamo, ed assai caldo il letto

a noi facciamo; ché risorto è il vento».

Disse, e ambedue si giacquero tra molte

foglie cadute, che ammucchiate al tronco

di vecchie quercie aveva la procella;

e parvero nel mucchio, essi, due tizzi,

vecchi, riposti con un po' di fuoco,

sotto la grigia cenere infeconda.

E sopra loro alta stormìa la selva.

Ed ecco il cuore dell'Eroe leoni

udì ruggire. Avean dormito il giorno,

certo, e l'eccelsa casa era vicina.

Invero intese anche la voce arguta,

in lontananza, della dea, che, sola,

non prendea sonno e ancor tessea notturna.

Né prendea sonno egli, Odisseo, ma spesso

si volgea su le foglie stridule aspre.

 

      XVII

L'AMORE

 

E con la luce rosea dell'aurora

non udì più ruggito di leoni,

che stanchi alfine di vegliar, col muso

dormian disteso su le lunghe zampe.

Dormiva anch'ella, allo smorir dell'alba,

pallida e scinta sopra il noto letto.

E il vecchio Eroe parlava al vecchio Aedo:

Prenda ciascuno una sua via: ch'è meglio.

«Ma diamo un segno; con la cetra, Aedo,

tu, che ritrova pur da lungi il cuore.

Ma s'io ritrovi ciò che il cuor mi vuole,

ti getto allora un alalà di guerra,

quale gettavo nella mischia orrenda

eroe di bronzo sopra i morti ignudi,

io; che il cuore lo intenda anche da lungi».

Disse, e taceva dei leoni uditi

nell'alta notte, e della dea canora.

E prese ognuno la sua via diversa

per macchie e boschi, e monti e valli, e nulla

udì l'Eroe, se non ruggir le quercie

a qualche rara raffica, e cantare

lontan lontano eternamente il mare.

E non vide la casa, né i leoni

dormir col muso su le lunghe zampe,

né la sua dea. Ma declinava il sole,

e tutte già s'ombravano le strade.

E mise allora un alalà di guerra

per ritrovare il vecchio Aedo, almeno;

e porse attento ad ogni aura l'orecchio

se udisse almeno della cetra il canto;

e sì, l'udì; traendo a lei, l'udiva,

sempre più mesta, sempre più soave,

cantar l'amore che dormia nel cuore,

e che destato solo allor ti muore.

La udì più presso, e non la vide, e vide

nel folto mucchio delle foglie secche

morto l'Aedo; e forse ora, movendo

pel cammino invisibile, tra i pioppi

e i salici che gettano il lor frutto,

toccava ancora con le morte dita

l'eburnea cetra: così mesto il canto

n'era, e così lontano e così vano.

Ma era in alto, a un ramo della quercia,

la cetra arguta, ove l'avea sospesa

Femio, morendo, a che l'Eroe chiamasse

brillando al sole o tintinnando al vento:

al vento che scotea gli alberi, al vento

che portava il singulto ermo del mare.

E l'Eroe pianse, e s'avviò notturno

alla sua nave, abbandonando morto

il dolce Aedo, sopra cui moveva

le foglie secche e l'aurea cetra il vento.

 

                 XVIII

L'ISOLA DELLE CAPRE

 

Indi più lungi navigò, più triste,

E corse i flutti nove di la nave

or col remeggio or con la bianca vela.

E giunse alfine all'isola selvaggia

ch'è senza genti e capre sole alleva.

E qui vinti da sonno e da stanchezza

dormian sul lido a cui batteva l'onda.

Ma con la luce rosea dell'aurora

vide Odisseo la terra dei Ciclopi,

non presso o lungi, e gli sovvenne il vanto

ch'ei riportò con la sua forza e il senno,

del mangiatore d'uomini gigante.

Ed oblioso egli cercò l'Aedo

per dire a lui: «Terpiade Femio, il sogno

dolce e dimenticato io lo risogno:

era la gloria...» Ma il vocale Aedo

dormia sotto le stridule aspre foglie,

e la sua tetra là cantava al vento

il dolce amore addormentato in cuore,

che appena desto solo allor ti muore.

E l'Eroe disse ai vecchi remiganti:

«Compagni, udite. Qui non son che capre;

e qui potremmo d'infinita carne

empirci, fino a che sparisca il sole.

Ma no: le voglio prendere al pastore,

pecore e capre; ch'è, così, ben meglio.

È là, pari a un cocuzzolo silvestro,

quel mio pastore. Io l'accecai. Ma il grande

cuor non m'è pago. Egli implorò dal padre,

ch'io perdessi al ritorno i miei compagni,

e mal tornassi, e in nave d'altri, e tardi.

Or sappia che ho compagni e che ritorno

sopra nave ben mia dal mio ritorno.

Andiamo: a mare troveremo un antro

tutto coperto, io ben lo so, di lauro.

Avessi ancora il mio divino Aedo!

Vorrei che il canto d'Odisseo là dentro

cantasse, e quegli nel tornare all'antro

sostasse cieco ad ascoltar quel canto,

coi greggi attorno, il mento sopra il pino.

E io sedessi all'ombra sua, nel lido!»

Disse, e ai compagni longiremi ingiunse

di salir essi e sciogliere gli ormeggi.

Salirono essi, e in fila alle scalmiere

facean coi remi biancheggiare il flutto.

E giunti presso, videro sul mare,

in una punta, l'antro, alto, coperto

di molto lauro, e v'era intorno il chiuso

di rozzi blocchi, e lunghi pini e quercie

altochiomanti. E il vecchio Eroe parlava:

«Là prendiam terra, ch'egli dal remeggio

non ci avvisti; ch'a gli orbi occhio è l'orecchio;

e non ci avventi un masso, come quello

che troncò in cima di quel picco nero,

e ci scagliò. Rimbombò l'onda al colpo».

Ed accennava un alto monte, tronco

del capo, che sorgeva solitario.

 

        XIX

IL CICLOPE

 

Ecco: ai compagni disse di restare

presso la nave e di guardar la nave.

Ed egli all'antro già movea, soletto,

per lui vedere non veduto, quando

parasse i greggi sufolando al monte.

Ora all'Eroe parlava Iro il pitocco:

«Ben verrei reco per veder quell'uomo

che tanto mangia, e portar via, se posso,

di sui cannicci, già scolati i caci,

e qualche agnello dai gremiti stabbi.

Poi ch'Iro ha fame. E s'ei dentro ci fosse,

il gran Ciclope, sai ch'Iro è veloce

ben che non forte; è come Iri del cielo

che va sul vento con il piè di vento».

L'Eroe sorrise, e insieme i due movendo,

il pitocco e l'Eroe, giunsero all'antro.

Dentro e' non era. Egli pasceva al monte

i pingui greggi. E i due meravigliando

vedean graticci pieni di formaggi,

e gremiti d'agnelli e di capretti

gli stabbi, e separati erano, ognuni

ne' loro, i primaticci, i mezzanelli

e i serotini. E d'uno dei recinti

ecco che uscì, con alla poppa il bimbo,

un'altocinta femmina, che disse:

«Ospiti, gioia sia con voi. Chi siete?

donde venuti? a cambiar qui, qual merce?

Ma l'uomo è fuori, con la greggia, al monte;

tra poco torna, ché già brucia il sole.

Ma pur mangiate, se il tardar v'è noia».

Sorrise ad Iro il vecchio Eroe: poi disse:

«Ospite donna, e pur con te sia gioia.

Ma dunque l'uomo a venerare apprese

gli dei beati, ed ora sa la legge,

benché tuttora abiti le spelonche,

come i suoi pari, per lo scabro monte?»

E l'altocinta femmina rispose:

«Ospite, ognuno alla sua casa è legge,

e della moglie e de' suoi nati è re.

Ma noi non deprediamo altri: ben altri,

ch'errano in vano su le nere navi,

come ladroni, a noi pecore o capre

hanno predate. Altrui portando il male

rischian essi la vita. Ma voi siete

vecchi, e cercate un dono qui, non prede».

Verso Iro il vecchio anche ammiccò: poi disse:

«Ospite donna, ben di lui conosco

quale sia l'ospitale ultimo dono».

Ed ecco un grande tremulo belato

s'udì venire, e un suono di zampogna,

e sufolare a pecore sbandate:

e ne' lor chiusi si levò più forte

il vagir degli agnelli e dei capretti.

Ch'egli veniva, e con fragore immenso

depose un grande carico di selva

fuori dell'antro: e ne rintronò l'antro.

E Iro in fondo s'appiattò tremando.

 

         XX

LA GLORIA

 

E l'uomo entrò, ma l'altocinta donna

gli venne incontro, e lo seguiano i figli

molti, e le molte pecore e le capre

l'una all'altra addossate erano impaccio,

per arrivare ai piccoli. E infinito

era il belato, e l'alte grida, e il fischio.

Ma in breve tacque il gemito, e ciascuno

suggea scodinzolando la sua poppa.

E l'uomo vide il vecchio Eroe che in cuore

meravigliava ch'egli fosse un uomo;

e gli parlò con le parole alate:

«Ospite, mangia. Assai per te ne abbiamo».

Ed al pastore il vecchio Eroe rispose:

«Ospite, dimmi. Io venni di lontano,

molto lontano; eppur io già, dal canto

d'erranti aedi, conoscea quest'antro.

Io sapea d'un enorme uomo gigante

che vivea tra infinite greggie bianche,

selvaggiamente, qui su i monti, solo

come un gran picco; con un occhio tondo...»

Ed il pastore al vecchio Eroe rispose:

«Venni di dentro terra, io, da molt'anni;

e nulla seppi d'uomini giganti».

E l'Eroe riprendeva, ed i fanciulli

gli erano attorno, del pastore, attenti:

«che aveva solo un occhio tondo, in fronte,

come uno scudo bronzeo, come il sole,

acceso, vuoto. Verga un pino gli era,

e gli era il sommo d'un gran monte, pietra

da fionda, e in mare li scagliava, e tutto

bombiva il mare al loro piombar giù...»

Ed il pastore, tra i suoi pastorelli,

pensava, e disse all'altocinta moglie:

«Non forse è questo che dicea tuo padre?

Che un savio c'era, uomo assai buono e grande

per qui, Telemo Eurymide, che vecchio

dicea che in mare piovea pietre, un tempo,

sì, da quel monte, che tra gli altri monti

era più grande; e che s'udian rimbombi

nell'alta notte, e che appariva un occhio

nella sua cima, un tondo occhio di fuoco...»

Ed al pastore chiese il moltaccorto:

«E l'occhio a lui chi trivellò notturno?»

Ed il pastore ad Odisseo rispose:

«Al monte? l'occhio? trivellò? Nessuno.

Ma nulla io vidi, e niente udii. Per nave

ci vien talvolta, e non altronde, il male».

Disse: e dal fondo Iro avanzò, che disse:

«Tu non hai che fanciulli per aiuto.

Prendi me, ben sì vecchio, ma nessuno

veloce ha il piede più di me, se debbo

cercar l'agnello o rintracciare il becco.

Per chi non ebbe un tetto mai, pastore,

quest'antro è buono. Io ti sarò garzone».

 

         XXI

LE SIRENE

 

Indi più lungi navigò, più triste.

E stando a poppa il vecchio Eroe guardava

scuro verso la terra de' Ciclopi,

e vide dal cocuzzolo selvaggio

del monte, che in disparte era degli altri,

levarsi su nel roseo cielo un fumo,

tenue, leggiero, quale esce su l'alba

dal fuoco che al pastore arse la notte.

Ma i remiganti curvi sopra i remi

vedeano, sì, nel violaceo mare

lunghe tremare l'ombre dei Ciclopi

fermi sul lido come ispidi monti.

E il cuore intanto ad Odisseo vegliardo

squittiva dentro, come cane in sogno:

– Il mio sogno non era altro che sogno;

e vento e fumo. Ma sol buono è il vero. –

E gli sovvenne delle due Sirene.

C'era un prato di fiori in mezzo al mare.

Nella gran calma le ascoltò cantare:

– Ferma la nave! Odi le due Sirene

ch'hanno la voce come è dolce il miele;

ché niuno passa su la nave nera

che non si fermi ad ascoltarci appena,

e non ci ascolta, che non goda al canto,

né se ne va senza saper più tanto:

ché noi sappiamo tutto quanto avviene

sopra la terra dove è tanta gente! –

Gli sovveniva, e ripensò che Circe

gl'invidïasse ciò che solo è bello:

saper le cose. E ciò dovea la Maga

dalle molt'erbe, in mezzo alle sue belve.

Ma l'uomo eretto, ch'ha il pensier dal cielo,

dovea fermarsi, udire, anche se l'ossa

aveano poi da biancheggiar nel prato,

e raggrinzarsi intorno lor la pelle.

Passare ei non doveva oltre, se anco

gli si vietava riveder la moglie

e il caro figlio e la sua patria terra.

E ai vecchi curvi il vecchio Eroe parlò:

«Uomini, andiamo a ciò che solo è bene:

a udire il canto delle due Sirene.

lo voglio udirlo, eretto su la nave,

né già legato con le funi ignave:

libero! alzando su la ciurma anela

la testa bianca come bianca vela;

e tutto quanto nella terra avviene

saper dal labbro delle due Sirene».

Disse, e ne punse ai remiganti il cuore,

che seduti coi remi battean l'acqua,

saper volendo ciò che avviene in terra:

se avea fruttato la sassosa vigna,

se la vacca avea fatto, se il vicino

aveva d'orzo più raccolto o meno,

e che facea la fida moglie allora,

se andava al fonte, se filava in casa.

 

          XXII

IN CAMMINO

 

Ed ecco giunse all'isola dei loti.

E sedean sulla riva uomini e donne,

sazi di loto, in dolce oblìo composti.

E sorsero, ai canuti remiganti

offrendo pii la floreal vivanda.

«O così vecchi erranti per il mare,

mangiate il miele dell'oblìo ch'è tempo!»

Passò la nave, e lento per il cielo

il sonnolento lor grido vanì.

E quindi venne all'isola dei sassi.

E su le rupi stavano i giganti,

come in vedetta, e su la nave urlando

piovean pietre da carico con alto

fracasso. A stento si salvò la nave.

E quindi giunse all'isola dei morti.

E giacean lungo il fiume uomini e donne,

sazi di vita, sotto i salci e i pioppi.

Volsero il capo; e videro quei vecchi;

e alcuno il figlio ravvisò fra loro,

più di lui vecchio, e per pietà di loro

gemean: – Venite a riposare: è tempo! –

Passò la nave, ed esile sul mare

il loro morto mormorio vanì.

E di lì venne all'isola del sole.

E pascean per i prati le giovenche

candide e nere, con le dee custodi.

Essi udiano mugliare nella luce

dorata. A stento lontanò la nave.

E di lì giunse all'isola del vento.

E sopra il muro d'infrangibil bronzo

vide i sei figli e le sei figlie a guardia.

E videro la nave, essi, e nel bianco

suo timoniere, parso in prima un cigno

o una cicogna, uno Odisseo conobbe,

che così vecchio anco sfidava i venti;

e con un solo sibilo sul vecchio

scesero insieme di sul liscio masso.

Ed ora l'ira li portò, dei venti,

per giorni e notti, e li sospinse verso

le rupi erranti, ma così veloce,

che a mezzo un cozzo delle rupi dure

come uno strale scivolò la nave.

E allora l'aspra raffica discorde

portava lei contro Cariddi e Scilla.

E già l'Eroe sentì Scilla abbaiare,

come inquïeto cucciolo alla luna,

sentì Cariddi brontolar bollendo,

come il lebete ad una molta fiamma;

e le dodici branche avventò Scilla,

ed assorbì la salsa acqua Cariddi:

invano. Era passata oltre la nave.

E tornarono i venti alla lor casa

cinta di bronzo, mormorando cupi

tra loro, in rissa. E venne un'alta calma

senza il più lieve soffio, e sopra il mare

un dio forse era, che addormentò l'onde.

 

    XXIII

IL VERO

 

Ed il prato fiorito era nel mare,

nel mare liscio come un cielo; e il canto

non risonava delle due Sirene,

ancora, perché il prato era lontano.

E il vecchio Eroe sentì che una sommessa

forza, corrente sotto il mare calmo,

spingea la nave verso le Sirene

e disse agli altri d'inalzare i remi:

La nave corre ora da sé, compagni!

«Non turbi il rombo del remeggio i canti

delle Sirene. Ormai le udremo. Il canto

placidi udite, il braccio su lo scalmo».

E la corrente tacita e soave

più sempre avanti sospingea la nave.

E il divino Odisseo vide alla punta

dell'isola fiorita le Sirene,

stese tra i fiori, con il capo eretto

su gli ozïosi cubiti, guardando

il mare calmo avanti sé, guardando

il roseo sole che sorgea di contro;

guardando immote; e la lor ombra lunga

dietro rigava l'isola dei fiori.

«Dormite? L'alba già passò. Già gli occhi

vi cerca il sole tra le ciglia molli.

Sirene, io sono ancora quel mortale

che v'ascoltò, ma non poté sostare».

E la corrente tacita e soave

più sempre avanti sospingea la nave.

E il vecchio vide che le due Sirene,

le ciglia alzate su le due pupille,

avanti sé miravano, nel sole

fisse, od in lui, nella sua nave nera.

E su la calma immobile del mare,

alta e sicura egli inalzò la voce.

«Son io! Son io, che torno per sapere!

Ché molto io vidi, come voi vedete

me. Sì; ma tutto ch'io guardai nel mondo,

mi riguardò; mi domandò: Chi sono?»

E la corrente rapida e soave

più sempre avanti sospingea la nave.

E il Vecchio vide un grande mucchio d'ossa

d'uomini, e pelli raggrinzate intorno,

presso le due Sirene, immobilmente

stese sul lido, simili a due scogli.

«Vedo. Sia pure. Questo duro ossame

cresca quel mucchio. Ma, voi due, parlate!

Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,

prima ch'io muoia, a ciò ch'io sia vissuto!»

E la corrente rapida e soave

più sempre avanti sospingea la nave.

E s'ergean su la nave alte le fronti,

con gli occhi fissi, delle due Sirene.

«Solo mi resta un attimo. Vi prego!

Ditemi almeno chi sono io! chi ero!»

E tra i due scogli si spezzò la nave.

 

      XXIV

CALYPSO

 

E il mare azzurro che l'amò, più oltre

spinse Odisseo, per nove giorni e notti,

e lo sospinse all'isola lontana,

alla spelonca, cui fioriva all'orlo

carica d'uve la pampinea vite.

E fosca intorno le crescea la selva

d'ontani e d'odoriferi cipressi;

e falchi e gufi e garrule cornacchie

v'aveano il nido. E non dei vivi alcuno,

né dio né uomo, vi poneva il piede.

Or tra le foglie della selva i falchi

battean le rumorose ale, e dai buchi

soffiavano, dei vecchi alberi, i gufi,

e dai rami le garrule cornacchie

garrian di cosa che avvenia nel mare.

Ed ella che tessea dentro cantando,

presso la vampa d'olezzante cedro,

stupì, frastuono udendo nella selva,

e in cuore disse: – Ahimè, ch'udii la voce

delle cornacchie e il rifiatar dei gufi!

E tra le dense foglie aliano i falchi.

Non forse hanno veduto a fior dell'onda

un qualche dio, che come un grande smergo

viene sui gorghi sterili del mare?

O muove già senz'orma come il vento,

sui prati molli di viola e d'appio?

Ma mi sia lungi dall'orecchio il detto!

In odio hanno gli dei la solitaria

Nasconditrice. E ben lo so, da quando

l'uomo che amavo, rimandai sul mare

al suo dolore. O che vedete, o gufi

dagli occhi tondi, e garrule cornacchie? –

Ed ecco usciva con la spola in mano,

d'oro, e guardò. Giaceva in terra, fuori

del mare, al piè della spelonca, un uomo,

sommosso ancor dall'ultima onda: e il bianco

capo accennava di saper quell'antro,

tremando un poco; e sopra l'uomo un tralcio

pendea con lunghi grappoli dell'uve.

Era Odisseo: lo riportava il mare

alla sua dea: lo riportava morto

alla Nasconditrice solitaria,

all'isola deserta che frondeggia

nell'ombelico dell'eterno mare.

Nudo tornava chi rigò di pianto

le vesti eterne che la dea gli dava;

bianco e tremante nella morte ancora,

chi l'immortale gioventù non volle.

Ed ella avvolse l'uomo nella nube

dei suoi capelli; ed ululò sul flutto

sterile, dove non l'udia nessuno:

– Non esser mai! non esser mai! più nulla,

ma meno morte, che non esser più! –

 

 

IL POETA DEGLI ILOTI

 

           I

IL GIORNO

 

Figlio di Dio, molto giocondo in cuore

prendesti terra in Aulide pietrosa!

Tornavi tu dal suolo degli Abanti

ricco di vigne, dalla popolata

di belle donne Calcide; né prima

d'allora avevi traversato il mare.

Ma il largo mare traversasti allora;

ché il re, più re degli uomini mortali,

era là morto, ed una gara indetta

e di lotte e di corse era, e di canto.

E tu nel canto ogni cantor vincesti,

anche il vecchio di Chio cieco e divino,

col tuo ben congegnato inno di guerra.

Ed ora sceso dalla nera nave

movevi ad Ascra, assai giocondo in cuore;

ché per la via ti camminava a paro

un curvo schiavo, che reggea sul dorso

il premio illustre: un tripode di bronzo.

 

Ché l'orecchiuto tripode di bronzo

gravava in prima al buon Ascreo le spalle;

e prima l'una, e l'altra poi; ché grave

era, di bronzo; e poi l'avea, per l'anse,

sospeso al ramo ch'era suo, d'alloro;

e lo portava: ma venuto a un grande

platano, donde chiara acqua sgorgava,

sostò, già stanco. Ed era quello il fonte

dove il segno gli Achei videro, d'otto

passeri implumi, e nove con la madre.

E di passeri il platano sul fonte

garriva ancora, e il buon Ascreo li udiva,

pensando in cuore un nuovo inno di guerra.

E riprendeva già la via, col caro

tripode, in dosso, che brillava al sole,

quando sorvenne un viator che bevve;

e seguitò. Ma poco dopo «O vecchio.»

disse, «ch'io porti il tuo laveggio: è peso.»

 

E tolse prima il tripode, che l'altro

gli rispondesse: dopo, gli rispose:

«Grave era, è grave. Ed anche tu sei vecchio.»

«Ma sono schiavo» gli rispose il vecchio:

«schiavo; e dal monte Citerone io venni

menando al mare, ad una curva nave,

due bei vitelli, nati schiavi anch'essi.

Torno al padrone. Ma tu dove, o babbo?»

«Ad Ascra: ad Ascra, misero villaggio,

tristo al freddo, aspro al caldo, e non mai buono.»

E non addimandato altro gli disse:

«Venni per mare, ad Aulide: ho passato

l'Euripo. Indetta a Calcide una gara

e di lotte e di corse era, e di canto.

Vinsi codesto tripode di bronzo

cantando gesta degli eroi...» «Sei dunque

rapsodo errante, e sai le false cose

far come vere, ma non dir le vere.»

 

Non rispondeva il vecchio Ascreo, ché tutto

era in pensar le mille navi in porto,

mentre sul curvo lido la procella

scotea le chiome degli Achei chiomanti.

E il sole era già caldo, e la campagna

fervea di mugli. Ché la pioggia a lungo

nei dì passati avea temprato il suolo,

e i contadini aravano le salde,

ed era tempo d'affidar le fave

ai solchi neri, e la lenticchia ai rossi.

E nudo un uomo traea giù da un carro,

presso la strada, con un suo ronciglio,

il pingue concio. E il buon Ascreo ne torse

il volto offeso. Ma lo schiavo curvo

sotto il ben fatto tripode di bronzo,

disse gioia a quel nudo uomo, e quel concio

lodò, maturo. E brontolò stradando:

«Ben fa, chi fa. Sol chi non fa, fa male.»

 

Ed era presso mezzodì, né casa

ora appariva, a cui cercare un dono

piccolo e caro. Ché tra rupi e cespi

di stipe in fiore essi ripìano, muti.

Taceva anche la lodola dal ciuffo;

anche il cantore. Egli tacea per l'astio

ch'altri tacesse. Ma lo schiavo andando

volgea lo sguardo alle inamene roccie.

E disse alfine: «Ecco!» E mostrò la roccia

verde, in un punto, per nascente ontano.

«C'è tutto, al mondo, ma nascosto è tutto.

Prima, cercare, e poi convien raspare.»

Egli depose il tripode di bronzo,

raspò, rinvenne un sottil filo d'acqua.

Poi dal laveggio che brillava al sole

un pane trasse, che v'avea deposto,

e lo partì col buon Ascreo, dicendo:

«So ch'è più grande la metà che il tutto.»

 

Finito, prima che la fame, il cibo,

mossero ancora per la via rupestre

che già scendeva. Ed ecco che lo schiavo

guardando attorno vide una bolgetta

in un cespuglio. E presala, vi scòrse

splendere dentro due talenti d'oro.

E guardò giù per il sentiero, e scòrse

lontan lontano cavalcare un uomo.

E disse: «Padre, per un po' sul dorso

reggimi il grave tripode di bronzo,

ché n'avrei briga nel veloce corso.»

E corse, e giunse al cavalier, cui rese,

poi ch'egli suo glielo giurò, quell'oro.

Poi, trafelato, il buon Ascreo sorvenne.

«Facile t'era aver per te quell'oro!»

disse allo schiavo. E mormorò lo schiavo:

«Facile, sì: c'è poca strada al male.

Il male, o padre, è nostro casigliano.»

 

Così parlando andavano, e la strada

era già piana, e si vedean tuguri

di contadini ed ammuffiti borghi.

E lor giungea da tempo uno schiamazzo

di voci, come un abbaiar di cani

lontani. E sempre lor venìa più presso.

Erano gente che in un trivio aperto

rissavano con voci aspre di cani.

E alcun di loro già brandìa la zappa,

poi che l'irosa voce era già rauca;

quando lo schiavo nel buon punto accorse,

deposto in terra il tripode di bronzo;

e tenne l'uno e sgridò l'altro, e disse:

«Pace! È la pace che ralleva i bimbi.

Sono i pesci dell'acque, e son le fiere

dei boschi, e sono gli avvoltoi dell'aria,

ch'hanno per legge di mangiar l'un l'altro.

Gli uomini, no, ché la lor legge è il bene.»

 

E quelli ognun tornava all'intermessa

opera, in pace. E i bovi sotto il giogo

rivedeano il lor uomo con un muglio,

compiendo il solco al suon della sua voce

ch'era arrochita: e le ricurve zappe

sfacean le zolle seppellendo il seme.

E lo schiavo riprese sopra il dorso

l'aspro di segni tripode di bronzo,

e riprendendo la sua via diceva

ad un rubesto giovane: «Lavora,

o gran fanciullo, se la terra e il cielo

t'amino, amando essi chi lor somiglia!

Ché la nube carreggia, con un cupo

brontolìo, l'acqua; e da lontano, ansando

il vento viene; e infaticato il sole

torna ogni giorno. Ma la terra è tarda,

madre che fece tanti figli, e tutti

li ebbe alla poppa. O dàlle ora una mano!»

 

E lo schiavo stradò col suo cantore

a paro a paro. E già scendea la sera,

e velava una dolce ombra le strade.

Né più borghi muffiti erano intorno,

né casolari. Erano intorno macchie

folte di lauro che odorava al cielo.

E videro ambedue ch'era smarrita

ormai la strada. Ed il cantore stanco

disse allo schiavo: «Mal tu m'hai condotto.»

E gli rispose il pazïente schiavo:

«In te fidavo: Ché del buon cammino

chi c'è, se non il buon cantor, maestro?»

 

       II

LA NOTTE

 

E sul lor capo era l'opaca notte

piena di stelle. E risplendea nel cielo

l'Orsa minore, che accennò qual fosse

la vera strada, né però dall'alto

la rischiarava, colaggiù, nell'ombra.

E l'uomo allora e presso lui lo schiavo

sostarono nel bosco ove in un giogo

s'allargava assai piana una radura,

donde era meglio preveder le fiere,

se alcuna v'era che traesse al fiuto.

E poi lo schiavo conficcò nel suolo

il suo bastone, e presso quello il ramo

di sacro lauro, del cantore, e sopra

la sua schiavina sciorinò, che fosse

schermo dal lato onde veniva il freddo.

E disse: «O padre, bene io so le notti

gelide, e il sonno sotto la rugiada.

Ma è ben tardi perché tu l'impari.»

 

Ma allo schiavo il pio cantor rispose:

«Ospite caro, basta ch'io ricordi.

Ero fanciullo ed imparai le notti

gelide e il sonno sotto la rugiada.

Ché da fanciullo pascolai la greggia,

reggendo in mano la ricurva verga

del pecoraio, non lo scettro, ramo

di sacro alloro che, senz'altro squillo

d'arguta cetra, colma a me di canto,

come alle genti di silenzio, il cuore.

Mio padre ad Ascra dall'eolia Cyme

venne, fuggendo, non la copia e gli agi,

sì la cattiva povertà; che venne,

tanto l'amava, su la nave anch'ella,

né più si stolse e poi restò col figlio.

E io badai le pecore sui greppi

dell'Elicone, il grande monte e bello,

e le notti passai su la montagna.

 

E in una notte come questa... il sonno

non mi voleva. Ché splendean le stelle

tutte nel cielo, e fresche del lavacro

veniano su le Pleiadi che al campo

lascian l'aratro e trovano la falce.

E insonne udivo uno stormir di selve,

un correr d'acque, un mormorio di fonti.

E s'esalava un infinito odore

dai molli prati, e tutto era silenzio,

e tutto voce; ed era tutto un canto.

Ed ecco tutto io mi sentii dischiuso

all'universo, che d'un tratto invase

l'essere mio; né così lieve un sogno

entra nell'occhio nostro benché chiuso.

E tutto allora in me trovai, che prima

fuori appariva, e in me trovai quel canto,

che si frangea nell'anima serena

piena, nell'alta opacità, di stelle.

 

E quel canto parlava della Terra

dall'ampio petto, che, infelice madre,

nell'evo primo non facea che mostri,

orrendi enormi, e li tenea nascosti

in sé, perché non li vedesse il Cielo.

E lei guardava coi mille occhi il Cielo,

molto in sospetto, ché l'udia sovente

gemere e la vedea scotersi tutta

per la strettura; e venir fumo fuori

nel giorno, e fiamme nella nera notte.

Al fin la Terra spinse fuor d'un tratto

la grande prole; e con un grande sbalzo

sorsero i monti dalle cento teste,

e d'ogni testa usciva il fumo e il fuoco,

che tolse il giorno e insanguinò la notte.

E non era che notte, risonante

di strida, rugghi, sibili, latrati,

e già non altro si vedea, che i mostri

lambersi il fuoco con le lingue nere.

 

E i mostri urlando massi ardenti al Cielo

avventarono; e il Cielo, arso dall'ira,

spezzò le stelle e ne scagliò le scheggie

contro la Terra, e in una notte d'anni

tra Cielo e Terra risonò la rissa.

Qua mille braccia si tendean nell'ombra

coi massi accesi, e mille urli ad un tempo

uscìan con essi; ma dall'alto gli astri

pioveano muti con un guizzo d'oro.

E il masso a volte si spezzò nell'astro.

E sfavillante un polverìo si sparse

nel nero spazio, come la corolla

d'un fior di luce, che per un momento

illuminò gli attoniti giganti,

e il mare immenso che ondeggiava al buio,

e in terra e in aria rettili deformi,

nottole enormi; e qualche viso irsuto

di scimmia intento ad esplorar da un antro.

 

E poi fu pace. Ed ecco uscì dall'antro

il bruto simo, e nella gran maceria,

dove sono i rottami anche del Cielo,

frugò raspò scavò, come fa il cane

senza padrone, ove si spense un rogo.

E fruga ancora e raspa ancora e scava

ancora. Ma dal Cielo ora alla Terra

sorride il sole e piange pia la nube.

È pace. Pur la Terra anco ricorda

l'antica lotta, e gitta fuoco, e trema.

E al Cielo torna l'ira antica, e scaglia

folgori a lei con subito rimbombo.

È pace sì, ma l'infelice Terra

è sol felice, quando ignara dorme;

e il Cielo azzurro sopra lei si stende

con le sue luci, e vuol destarla e svuole,

e l'accarezza col guizzar di qualche

stella cadente, che però non cade.

 

Come ora. E sol com'ora anco è felice

l'uomo infelice; s'egli dorme o guarda:

quando guarda e non vede altro che stelle,

quando ascolta e non ode altro che un canto.»

Così parlava, e dolce sorse un canto:

sul rumor delle foglie e delle fonti,

un dolce canto pieno di querele

e di domande, un nuvolo di strilli

cadente in un singulto grave, un grave

gemere che finiva in un tripudio.

E il buon Ascreo diceva: «Ecco, fu tolto

il sonno, tutto al querulo usignolo

che così piange per la notte intiera,

né sotto l'ala mai nasconde il capo;

ma solo mezzo, a quella cui la sera

gemere ascolta e riascolta l'alba.

Miseri! e un solo è il lor dolore, e forse

l'uno non ode mai dell'altro il pianto!»

 

E lo schiavo diceva: «Oh! non è pianto

questo né l'altro. Ma la casereccia

rondine ha molti i figli e le faccende,

e sa che l'alba è un terzo di giornata;

e dolce a quegli che operò nel giorno,

viene la sera, e lieto suona il canto

dopo il lavoro. E l'usignol gorgheggia

tutta la notte né vuol prender sonno...

ch'egli non vuole seppellir nel sonno,

avere in vano dentro sé non vuole

un solo trillo di quel suo dolce inno!»

Così parlava. E sorse aurea la luna

dalla montagna, ed insegnò la strada

al buon Ascreo, che mosse con lo schiavo.

A mano a mano lo accoglieva il canto

degli usignoli, fin che su l'aurora

gli annunzïò ch'era vicino un tetto,

una garrula rondine in faccende.

 

E poi giunsero al monte alto e divino,

a un tempio ermo tra i boschi. E il pio cantore

disse allo schiavo: «Ospite amico, è questo

il luogo dove pasturai fanciullo

il gregge, e dove appresi il canto, e dove

cantai la rissa tra la Terra e il Cielo.

Ma poi mi piacque, non cantare il vero,

sì la menzogna che somiglia al vero.

Ora il lavoro canterò, né curo

ch'io sembri ai re l'Aedo degli schiavi.»

 

Disse: e nel tempio solitario appese

il bello ansato tripode di bronzo.

 

 

POEMI DI ATE

 

   I

ATE

 

O quale usci dalla città sonante

di colombelle Mecisteo di Gorgo,

fuggendo al campi glauchi d'orzo, ai grandi

olmi cui già mordea qualche cicala

con la stridula sega. E tu fuggivi,

figlio di Gorgo, dall'erbosa Messe,

dove un tumulto, pari a fuoco, ardeva

sotto un bianco svolìo di colombelle.

Presto e campi di glauco orzo e canori

olmi lasciava, e nella folta macchia,

nido di gazze, s'immergea correndo,

pallido ansante, e gli vuotava il cuore

la fuga, e gli scavava il gorgozzule,

e dentro dentro gli pungea l'orecchia:

Poi che tumulto non udì né grida

più d'inseguenti, egli sostò. La sete

gli ardea le vene, ed ei bramava ancora

tuffare in una viva acqua corrente

la mano impura di purpureo sangue.

 

Una rana cantava non lontana,

che lo guidò. Qua qua, cantava, è l'acqua:

bruna acqua, acqua che fiori apre di gialle

rose palustri e candide ninfee.

Ora egli udì la rauca cantatrice

della fontana, Mecisteo di Gorgo,

e seguì l'orma querula e si vide

a un verde stagno che fiorìa di gialle

rose palustri e candide ninfee.

Come egli giunse, la canora rana

tacque, e lo stagno gorgogliò d'un tonfo.

Or egli prima nello stagno immerse

le mani e a lungo stropicciò la rea

con la non rea: di tutte e due già monde

del pari, fece una rotonda coppa,

e la soppose al pìspino. Né bevve.

L'acqua era nera come morte, e rossi

come saette uscite dalla piaga

erano i giunchi, e livide, di tabe,

le rose accanto alle ninfee di sangue.

 

E Mecisteo fuggì dal nero gorgo

chiazzato dalle rose ampie del sangue;

fuggì lontano. Or quando già l'ardente

foga dei piedi temperava, un tratto

sentì da tergo un calpestìo discorde:

due passi, uno era forte, uno non era

che dell'altro la sùbita eco breve:

onde il suo capo inorridì di punte

e il cuore gli si profondò, pensando

che già non fosse il disugual cadere

di goccie rosse dentro l'acque nere,

né la lontana torbida querela

di quella rana, ma pensando in cuore

ch'era Ate, Ate la vecchia, Ate la zoppa,

che dietro le fiutate orme veniva.

Né riguardò, ma più veloce i passi

stese, e gli orecchi inebrïò di vento.

 

Ma trito e secco gli venìa da tergo

sempre lo stesso calpestìo discorde,

misto a uno scabro anelito; né forse

egli pensò che fosse il picchiar duro

del taglialegna in echeggiante forra,

misto alla rauca ruggine del fiato:

era Ate, Ate la zoppa, Ate la vecchia,

che lo inseguiva con stridente lena,

veloce, infaticabile. E già fuori

correa del bosco, sopra acute roccie;

e d'una in altra egli balzava, pari

allo stambecco, e a ogni lancio udiva

l'urlo e lo sforzo d'un simile lancio,

poi dietro sé picchierellare il passo

eterno con la sùbita eco breve.

Fin che giunse al burrone, alto, infinito,

tale che all'orlo non giungea lo stroscio

d'una fiumana che muggiva al fondo.

Allor si volse per lottar con Ate,

il buono al pugno Mecisteo di Gorgo;

volsesi e scricchiolar fece le braccia

protese, l'aria flagellando, e il destro

piede più dietro ritraeva... e cadde.

Cadde, e, precipitando, Ate vide egli

che all'orlo estremo di tra i caprifichi

mostrò le rughe della fronte, e rise.

 

     II

L'ETÈRA

 

O quale, un'alba, Myrrhine si spense,

la molto cara, quando ancor si spense

stanca l'insonne lampada lasciva,

conscia di tutto. Ma v'infuse Evèno

ancor rugiada di perenne ulivo;

e su la via dei campi in un tempietto,

chiuso, di marmo, appese la lucerna

che rischiarasse a Myrrhine le notti;

in vano: ch'ella alfin dormiva, e sola.

Ma lievemente a quel chiarore, ardente

nel gran silenzio opaco della strada,

volò, con lo stridìo d'una falena,

l'anima d'essa: ché vagava in cerca

del corpo amato, per vederlo a cora,

bianco, perfetto, il suo bel fior di carne,

fiore che apriva tutta la corolla

tutta la notte, e si chiudea su l'alba

avido ed aspro, senza più profumo.

Or la falena stridula cercava

quel morto fiore, e batté l'ali al lume

della lucerna, che sapea gli amori;

ma il corpo amato ella non vide, chiuso,

coi molti arcani balsami, nell'arca.

 

Né volle andare al suo cammino ancora

come le aeree anime, cui tarda

prendere il volo, simili all'incenso

il cui destino è d'olezzar vanendo.

E per l'opaca strada ecco sorvenne

un coro allegro, con le faci spente,

da un giovenile florido banchetto.

E Moscho a quella lampada solinga

la teda accese, e lesse nella stele:

Myrrhine al lume della sua lucerna

dorme. È la prima volta ora, e per sempre.

E disse: «Amici, buona a noi la sorte!

Myrrhine dorme le sue notti, e sola!

Io ben pregava Amore iddio, che al fine

m'addormentasse Myrrhine nel cuore:

pregai l'Amore e m'ascoltò la Morte».

E Callia disse: «Ell'era un'ape, e il miele

stillava, ma pungea col pungiglione».

E disse Agathia: «Ella mesceva ai bocci

d'amor le spine, ai dolci fichi i funghi».

E Phaedro il vecchio: Pace ai detti amari!

ella, buona, cambiava oro con rame.

E stettero, ebbri di vin dolce, un poco

lì nel silenzio opaco della strada.

E la lucerna lor blandia sul capo,

tremula, il serto marcido di rose,

e forse tratta da quel morto olezzo

ronzava un'invisibile falena.

Ma poi la face alla lucerna tutti,

l'un dopo l'altro, accesero. Poi voci

alte destò l'auletride col flauto

doppio, di busso, e tra faville il coro

con un sonoro trepestìo si mosse.

 

L'anima, no. Rimase ancora, e vide

le luci e il canto dileguar lontano.

Era sfuggita al demone che insegna

le vie muffite all'anime dei morti;

gli era sfuggita: or non sapea, da sola,

trovar la strada: e stette ancora ai piedi

del suo sepolcro, al lume vacillante

della sua conscia lampada. E la notte

era al suo colmo, piena d'auree stelle;

quando sentì venire un passo, un pianto

venire acuto, e riconobbe Evèno.

Ché avea perduto il dolce sonno Evèno

da molti giorni, ed or sapea che chiuso

era nell'arca, con la morta etèra.

E singultendo disserrò la porta

del bel tempietto, e presa la lucerna,

entrò. Poi destro, con l'acuta spada,

tentò dell'arca il solido coperchio

e lo mosse, e con ambedue le mani,

puntellando i ginocchi, l'alzò. C'era

con lui, non vista, alle sue spalle, e il lieve

stridìo vaniva nell'anelito aspro

d'Evèno, un'ombra che volea vedere

Myrrhine morta. E questa apparve; e quegli

lasciò d'un urlo ripiombare il marmo

sopra il suo sonno e l'amor suo, per sempre.

 

E fuggì, fuggì via l'anima, e un gallo

rosso cantò con l'aspro inno la vita:

la vita; ed ella si trovò tra i morti.

Né una a tutti era la via di morte,

ma tante e tante, e si perdean raggiando

nell'infinita opacità del vuoto.

Ed era ignota a lei la sua. Ma molte

ombre nell'ombra ella vedea passare

e dileguare: alcune col lor mite

demone andare per la via serene,

ed altre, in vano, ricusar la mano

del lor destino. Ma sfuggita ell'era

da tanti giorni al demone; ed ignota

l'era la via. Dunque si volse ad una

anima dolce e vergine, che andando

si rivolgeva al dolce mondo ancora;

e chiese a quella la sua via. Ma quella,

l'anima pura, ecco che tremò tutta

come l'ombra di un nuovo esile pioppo:

«Non la so!» disse, e nel pallor del Tutto

vanì. L'etèra si rivolse ad una

anima santa e flebile, seduta

con tra le mani il dolce viso in pianto.

Era una madre che pensava ancora

ai dolci figli; ed anche lei rispose:

«Non la so!»; quindi nel dolor del Tutto

sparì. L'etèra errò tra i morti a lungo

miseramente come già tra i vivi;

ma ora in vano; e molto era il ribrezzo

di là, per l'inquïeta anima nuda

che in faccia a tutti sorgea su nei trivi.

 

E alfine insonne l'anima d'Evèno

passò veloce, che correva al fiume

arsa di sete, dell'oblìo. Né l'una

l'altra conobbe. Non l'avea mai vista.

Myrrhine corse su dal trivio, e chiese,

a quell'incognita anima veloce,

la strada. Evèno le rispose: «Ho fretta.»

 

E più veloce l'anima d'Evèno

corse, in orrore, e la seguì la trista

anima ignuda. Ma la prima sparve

in lontananza, nella eterna nebbia;

e l'altra, amante, a un nuovo trivio incerto

sostò, l'etèra. E intese là bisbigli,

ma così tenui, come di pulcini

gementi nella cavità dell'uovo.

Era un bisbiglio, quale già l'etèra

s'era ascoltata, con orror, dal fianco

venir su pio, sommessamente... quando

avea, di là, quel suo bel fior di carne,

senza una piega i petali. Ma ora

trasse al sussurro, Myrrhine l'etèra.

Cauta pestava l'erbe alte del prato

l'anima ignuda, e riguardava in terra,

tra gl'infecondi caprifichi, e vide.

Vide lì, tra gli asfòdeli e i narcissi,

starsene, informi tra la vita e il nulla,

ombre ancor più dell'ombra esili, i figli

suoi, che non volle. E nelle mani esangui

aveano i fiori delle ree cicute,

avean dell'empia segala le spighe,

per lor trastullo. E tra la morte ancora

erano e il nulla, presso il limitare.

E venne a loro Myrrhine; e gl'infanti

lattei, rugosi, lei vedendo, un grido

diedero, smorto e gracile, e gettando

i tristi fiori, corsero coi guizzi,

via, delle gambe e delle lunghe braccia,

pendule e flosce; come nella strada

molle di pioggia, al risonar d'un passo,

fuggono ranchi ranchi i piccolini

di qualche bodda: tali i figli morti

avanti ancor di nascere, i cacciati

prima d'uscire a domandar pietà!

Ma la soglia di bronzo era lì presso,

della gran casa. E l'atrio ululò tetro

per le vigili cagne di sotterra.

Pur vi guizzò, la turba infante, dentro,

rabbrividendo, e dietro lor la madre

nell'infinita oscurità s'immerse.

 

       III

LA MADRE

 

O quale Glauco, ebbro d'oblìo, percosse

la santa madre. E non poté la madre

che pur voleva, sostener nel cuore

quella percossa al volto umile e mesto;

ché da tanti dolori liso il cuore,

ecco, si ruppe; e ne dové morire.

E subito il buon demone sorvenne,

e più veloce d'un pensier di madre

ultimo, la soave anima prese,

la sollevò, la portò via lontano,

e due tre volte la tuffò nel Lete.

E le dicea: «Dimentica per sempre,

anima buona; ché sofferto hai troppo!»

E pose lei nel sommo della terra,

dove è più luce, più beltà; più Dio:

nel calmo Elisio, donde mai non torna

l'anima al basso, a dolorar la vita.

 

Ma nel profondo della terra il figlio

precipitò, nel baratro sotterra,

tanto sotterra alla sua tomba, quanto

erano su la tomba alte le stelle.

E là fu, nella oscurità, travolto

dalla massa d'eterna acqua, che sciacqua

pendula in mezzo all'infinito abisso;

che, mentre oscilla il globo della terra,

là dentro flotta, e urta le pareti

solide, e con cupo impeto rimbomba.

E l'anima di Glauco era travolta

nell'acqua eterna, e or lanciata contro

le roccie liscie, or tratta dal risucchio

giù. Né un raggio di luce, ma una romba

senza pensiero, e senza tempo il tempo.

Quando, un flutto sboccò con un singulto

in un crepaccio, e Glauco sgorgò dentro

l'antro sonante, e si trovò su l'onda

d'un nero fiume che correa sotterra

rapacemente. Ed era tutto un pianto,

un pianto occulto, il pianto dopo morte,

oh! così vano, le cui solitarie

lacrime lecca il labile lombrico.

E il fiume cieco del dolor sepolto

portò Glauco vicino alla palude

Acherusìade, ove tra terra e acqua

errano l'ombre a cui la morte insegna,

e che verranno ad altra vita ancora,

quando il destino li rivoglia in terra.

 

E vide le aspettanti anime Glauco

sul denso limo, a cui l'urtava il flutto,

e gridò Glauco, alto, e chiamò la madre:

«Madre che offesi... madre che percossi...

madre che feci piangere... Ma vengo

sul fiume eterno, o mamma, a te, del pianto!

O mamma che... feci morire! E morto

ti sono anch'io; nato da te! più morto!

Sì: t'ho percossa. Ma non sai con quanta

forza alle scabre roccie mi percuota

l'acqua laggiù, nel baratro; e che buio

laggiù! che grida! Oh! mai non fossi nato!

Mamma... pietà! perdonami! Se lasci

ch'io salga; e basta che tu voglia, io salgo;

oh! sarò buono! buono, ora per sempre!

non ti batterò più!... Mamma, già l'onda

mi porta via... perdona dunque! Io torno

laggiù... fa presto. Un tempo eri più buona,

o mamma!... O madre, ti mutò la morte!»

 

Così pregava, il figlio. Ecco, e l'ondata

dal molle limo lo staccò, lo volle

con sé, lo stese, lo portò nel fiume

del pianto vano. E singultendo, il fiume

lo versò nell'abisso; e nell'abisso

se lo riprese il vortice segreto.

E l'anima dell'empio era travolta

dall'acqua eterna, e tratta dal risucchio

giù, poi, nel buio, qua e là percossa.

 

Ed ella su, nel sommo della terra,

dove è più luce, più beltà, più Dio,

sedea serena; e con la guancia offesa

sopra la palma, si facea cullare

dal grande mare d'etere, dal breve,

lassù, mollissimo, oscillìo del mondo.

Ecco, levò dalla tranquilla palma

la guancia offesa, e riguardava intorno,

inorecchita. E il buon demone accorse

e le diceva: «Vieni al dolce Lete,

a bere ancora: non assai bevesti!»

Ed ella bevve. Ma via via dagli occhi

le usciva il pianto e le cadea nell'onda.

E le premeva il demone, soave-

mente, la nuca, e le diceva: «Ancora!

Ancora! Bevi! Non assai bevesti!»

E docile beveva ella, e nel Lete

le cadea sempre più dirotto il pianto.

Oh! non beveva che l'oblìo del male,

la santa madre, e si levò piangendo,

e disse: «Io sento che il mio figlio piange.

Portami a lui!» Né il demone s'oppose;

ché cuor di madre è d'ogni Dio più forte.

E con lei scese, ed ella andò sotterra

sempre piangendo e giunse alla palude

Acherusìade. Ed ella errò tra l'alga

deforme, ed ella s'aggirò tra il fango,

sempre accorrendo ad ogni sbocco appena

sentia mugghiare una marea sotterra,

e il pianto vano venir su, dei morti,

sui neri fiumi, di su i rossi fiumi.

 

Ed un flutto, laggiù, con un singulto

gittò Glauco in un antro, e poi su l'onde

del nero fiume che correa sotterra,

del pianto occulto, pianto dopo morte;

e lo portò vicino alla palude:

e gridò Glauco, alto, e chiamò la madre:

«Madre, eri buona, e ti mutò la morte!

mamma, io ti feci piangere; mammina,

io sì ti feci, io figlio tuo, morire...»

Ma ella, prima anche di lui, gridava

dal triste limo, tra il fragor dei flutti:

«Mia creatura, non lo feci apposta

io, a morir così d'un subito, io

io, a non dirti che non era nulla,

ch'era per gioco... Vieni su: perdona!»

 

E Glauco ascese. E poi la madre e il figlio

vennero ancor dalla palude in terra,

l'una a soffrire, e l'altro a far soffrire.

 

 

SILENO

 

– Figlio di Pan, figlio del dio silvestre

che nei canneti sibila e frascheggia,

là, nell'Asopo, e frange a questa rupe

il lungo soffio della sua zampogna;

tornar nell'ombra io volli a te, Sileno,

ora che tace la diurna rissa

del maglio e della roccia, or che non odo

più lime invide, più trapani ingordi;

or che gli schiavi qua e là sdraiati

sognano fiumi barbari; e la luna

prendendo il monte, il monte di Marpessa,

piove un pallore in cui tremola il sonno.

Sono un fanciullo, sono anch'io di Paro;

Scopas il nome; palestrita: ed oggi,

coronato di smilace e di pioppo,

correvo a gara con un mio compagno:

e giunsi qui dove gl'ignudi schiavi

Paflàgoni con cupi ululi in alto

tender vedevo intorno ad una rupe

le irsute braccia ed abbassar di schianto.

Ecco, il compagno rimandai soletto

al grammatista e al garrulo flagello;

ma io rimasi ad ammirar gl'ignudi

schiavi intorno la rupe alta ululanti.

Su sfavillìo di cunei l'arguto

maglio cadeva; e io seguia con gli occhi

l'opera grande della breve bietta,

ch'entra sottile come la parola,

poi sforza il masso, come quella il cuore;

quando, con uno scroscio ultimo, il blocco

s'aprì, mostrando, come in ossea noce

bianco gariglio, te di Pan bicorne

figlio, o Sileno: e tu ridevi al sole

riscintillante sopra l'ulivete;

e tu puntavi con l'orecchie aguzze

l'aereo mareggiar delle cicale.

Ma che mai cela questa rupe? Io venni

a domandarti perché mai sorridi

solo, costì, col tuo marmoreo volto,

e come tendi le puntute orecchie

al sibilìo de' fragili canneti.

Od altro ascolti e vedi altro, Sileno? –

 

Scopas, alunno dell'alpestre Paro,

così parlava al candido Sileno

figlio improvviso della roccia, nato

sotto martelli immemori di schiavi.

Il giovinetto gli sedea di contro

sopra un macigno, con al vento i bruni

riccioli, in mezzo a molti blocchi sparsi,

come il pastore tra l'inerte gregge.

E gli rispose il candido Sileno,

o parve, a un tratto con un volger d'occhi

simile a lampo che vaporò bianco

e scavò col fugace alito il monte.

Ed a quel lampo il giovinetto vide

ciò che non più gli tramontò dagli occhi.

 

Vide, sotto la scorza aspra del monte,

vide il tuo regno, o bevitor di gioia,

vecchio Sileno: una palestra: in essa

sorprese il breve anelito del lampo

in un bianco lor moto i palestriti:

l'ombra seguace irrigidì quel moto

per sempre; e stette nelle braccia tese

degli oculati pugili già pronto

lo scatto di fischiante arco di tasso,

ed alla mano al lanciator ricurvo

restò sospeso impazïente il disco

in cui pulsava il vortice di ruota,

ed alla pianta alta de' corridori

l'impeto rapido oscillò del vento:

gli efebi intenti a contemplar la gara

ressero sul perfetto omero l'asta.

In tanto a luminosi propilei,

con sul capo le braccia arrotondate,

vedeva lente vergini salire:

la pompa che albeggiò per un momento,

eternamente camminò nell'ombra.

 

Vide, sotto la scorza aspra del monte,

emersa dalle grandi acque Afrodite

vergine, al breve anelito del lampo

che la scopriva, con le pure braccia

velar le sacre fonti della vita:

l'ombra seguace conservò per sempre

la dolce vita ch'esita nascendo.

E vide anche la morte, anche il dolore:

vide fanciulli e vergini cadere

sotto gli strali di adirati numi,

e tutti gli occhi volgere agl'ingiusti

sibili: tutti: ma non già la madre:

la madre, al cielo; e proteggea di tutta

sé la più spaurita ultima figlia.

In tanto le Nereidi dal mare

volsero il collo, con la nivea spinta

del piede su le nuove onde sospesa;

mentre al bosco fuggivano le ninfe

inseguite da satiri correnti

con lor solidi zoccoli di becco;

e un baccanale dileguò sul monte.

 

Il giovinetto udì strepere trombe,

gemere conche, ed ascoltò soavi,

tra l'immensa manìa bronzosonante,

squillare i doppi flauti di loto.

Ed ecco il monte ritornò com'era,

tacito immoto, se non se nel fosco

gomito d'una forra anche appariva

l'ultimo bianco di lucenti groppe

di centauri precipiti, e sonava

un quadruplice tonfo di galoppo,

che poi vanì. Ma quando tacque il tutto,

oh! come sotto il velo di grandi acque,

s'udiva ancora eco di cembali, eco

di timpani, eco di piovosi sistri;

ed euhoè ed euhoè gridare

come in un sogno, come nel gran sogno

di quelle rupi candide di marmo

dormenti nella sacra ombra notturna.

E con quel grido si mescea nell'eco

il lungo soffio della tua zampogna,

o Pan silvano; e percotea la fronte

del sorridente bevitor di gioia,

e del fanciullo che sedea tra i blocchi,

quale un pastore tra l'inerte gregge.

 

 

POEMI DI PSYCHE

 

      I

PSYCHE

 

O Psyche, tenue più del tenue fumo

ch'esce alla casa, che se più non esce,

la gente dice che la casa è vuota;

più lieve della lieve ombra che il fumo

disegna in terra nel vanire in cielo:

sei prigioniera nella bella casa

d'argilla, o Psyche, e vi sfaccendi dentro,

pur lieve sì che non se n'ode un suono;

ma pur vi sei, nella ben fatta casa,

ché se n'alza il celeste alito al cielo.

E vi sfaccendi dentro e vi sospiri

sempre soletta, ché non hai compagne

altre che voci di cui tu sei l'eco;

ignude voci che con un sussulto

sorgere ammiri su da te, d'un tratto;

voci segrete a cui tu servi, o Psyche.

 

Intorno alla tua casa, o prigioniera,

pasce le greggi un Essere selvaggio,

bicorne, irsuto; e sui due piè di capro

sempre impennato, come a mezzo un salto.

E tu ne temi, ch'egli là minaccia

impazïente, e sempre ulula e corre;

e spesso guazza nel profondo fiume,

come la pioggia, e spesso crolla il bosco,

al par del vento; e non è mai l'istante

che tu non l'oda o non lo veda, o Psyche,

Pan multiforme. Eppur talvolta ei soffia

dolce così nelle palustri canne,

che tu l'ascolti, o Psyche, con un pianto

sì, ma che è dolce, perché fu già pianto

e perse il tristo nel passar dagli occhi

la prima volta. E tu ripensi a quando

vergine fosti ad un'ignota belva

data per moglie, crudel mostro ignoto.

E sempre al buio tu con lui giacesti

rabbrividendo docile, ed alfine,

vigile nel suo sonno alto di fiera,

accesa la tua piccola lucerna,

guardasti; e quella belva era l'Amore.

 

E lo sapesti solo allor che sparve,

l'Amore alato. E ne sospiri e l'ami.

E nella casa di ben fatta argilla,

dove sei schiava delle voci ignude,

sempre l'aspetti, che ritorni, e dorma

con te. Tu piangi, quando Pan, la notte,

fa dolcemente sufolar le canne;

piangi d'amore, o solitaria Psyche,

nella tua casa, dove più non tieni

posto, che l'ombra, e non fai più rumore,

che l'alito; e le voci odi che fanno

all'improvviso a te cader dal ciglio

la stilla che non ti volea cadere.

 

Però che sono e sùbite e severe

le più; ma più di tutte una che sempre

contende e grida, ad ogni tuo sospiro

verso l'alata libertà: «Non devi!»

Quella non t'ama, credi tu; ma un'altra

è, sì, che t'ama, e ti favella a parte

e ti consola, e teco piange, e parla

così sommessa che tu credi a volte

che sia meschina prigioniera anch'ella.

 

E tu devi, d'un mucchio alto di semi,

far tanti mucchi, e sceverare i grani

d'orzo, i chicchi di miglio, le rotonde

veccie, i bislunghi pippoli di rena.

E come fine polvere di ferro

sparsa per tutto il mucchio è la semenza

dei papaveri. E tu, Psyche, tu gemi

trepida, inerte; e poi con le tue dita

d'aria ti provi, scegli a lungo i semi

del papavero immemore, e in un giorno

tanti ne cogli, quanti appena udresti

cantare nella secca urna d'un fiore.

E piangi, ed ecco vengono le figlie

dell'alma Terra, frugole e succinte,

dalla pineta dove a Pan selvaggio

frangean tra gli aghi dei pinastri il suolo.

Non so chi disse alle operaie nere

di Pan la cosa. Ma si fa d'un tratto

un brulichìo per l'odorata selva;

e sgorgano esse a frotte dai minuti

lor collicelli, mentre Pan nell'ombra

s'addorme al canto delle sue cicale.

E salgono alla casa, onda su onda,

fila incessante di formiche, ed opre

vengono a te; ma prima i grani d'orzo,

pesi, e i bislunghi pippoli di vena

portano, due di loro uno di quelli;

fanno le veccie di tra il biondo miglio,

poi fanno il miglio minimo, poi vanno.

E resta a te la polvere di semi,

di cui ciascuno dal suo nulla esprima

un lungo stelo e il molle fior del sonno.

 

E il molle sonno tu lo chiami, o Psyche,

dacché di quelle voci una, la voce

che non t'ama e ti sgrida aspra, ti disse:

«Vil fanticella, prendi questa brocca

e va per acqua al nero fonte; al fonte

di cui sgorga l'oscura onda, sotterra,

al fiume morto. Esci per poco, e torna.»

E tuo mal grado, o schiavolina, andasti

con la tua brocca di cristallo al fonte;

e là vedesti, su la grotta, il drago,

l'insonne drago, sempre aperti gli occhi;

e tu chiudesti, o Psyche, i tuoi, da lungi

rabbrividendo; ed ecco, non veduto,

uno ti prese l'anfora di mano,

che piena in mano dopo un po' ti rese,

e dileguò. Tu lentamente a casa

tornavi smorta, e con un gran sospiro,

apristi gli occhi, e nel cristallo puro

tu guardasti l'oscura acqua di morte,

e vi vedesti il vortice del nulla,

e ne tremasti. E Pan allora un dolce

canto soffiò nelle palustri canne,

che tu piangesti a quel pensier di morte

come piangevi per desìo d'amore:

lo stesso pianto, così dolce, o Psyche!

 

Ma pur ne tremi, o Psyche, ancora, e mesta

invochi il sonno, perché a te nasconda

quell'altro sonno, che non vuoi, più grande!

Ma delle voci di cui tu sei schiava,

quella che t'ama e ti consola a parte,

ecco che ti favella e ti consola:

«Povera Psyche, io so dov'è l'Amore.

Oh! l'Amore t'aspetta oltre la morte.

Di là, t'aspetta. Se tu passi il nero

fiume sotterra, troverai l'Amore.

Tremi? C'è un vecchio, vecchio come il tempo,

che tutti imbarca, e non fa male a Psyche!

E c'è un cane, oltre il fiume, che divora

ciò ch'è di troppo, e non fa male a Psyche!

Pallida Psyche, prendi tra le labbra

che sembrano due petali appassiti

di morta rosa, un obolo, e leggiero

tienlo, così, che te lo prenda il vecchio,

né tu lo senta; e chiudi gli occhi, e dormi.

E prendi una focaccia, anche, col miele

e col mite papavero, e leggiera

tienla, così, che te la prenda il cane,

né tu lo senta; e chiudi gli occhi, e dormi.

Appena desta, rivedrai l'Amore.»

 

Tu la focaccia prendi su, col miele,

tu chiudi nelle labbra scolorite

l'obolo; e non so quale alito lieve

ti porta via. Per dove passi, un'ombra

passa, non più che d'ali di farfalla.

Ma tu non dormi; e lievemente il vecchio

ti prende il piccolo obolo di bocca;

ma tu lo senti, e senti anche la rauca

lena del vecchio rematore, come

se alcuno seghi il duro legno, e come

se alcuno picchi su la putre terra;

anche senti un latrato, solitario;

e tremi tanto, che di man ti sfugge

ah! la focaccia, e fa un tonfo nell'acqua

morta del fiume. Ed anche tu vi cadi,

cadi nel queto vortice del nulla.

 

Ma Pan il gregge pasce là su l'orlo

del morto fiume. Non udivi il suono,

là, della vita? Tremuli belati

e cupi mugli, il gorgheggiar d'uccelli

tra foglie verdi, e sotto gravi mandre

lo scroscio vasto delle foglie secche.

E ti cullava nella vecchia barca

un canto lungo, che da te più sempre

s'allontanava sino a dileguare

nella dimenticata fanciullezza.

Pan! era Pan! Egli ti porge un braccio

ispido, e su ti leva intirizzita,

gelida, o Psyche; immemore; e ti corca

nuda così, lieve così, nel vello

del suo gran petto, e in sé ti cela a tutti.

 

Quali alte grida là dal mondo! Quali

tristi lamenti intorno alla tua casa,

d'argilla, o Psyche, donde più non esce

il tenue fumo, alla tua casa vuota

di cui sparve il celeste alito in cielo.

Ti cercano le genti, o fuggitiva.

O Psyche! o Psyche! dove sei? Ti cerca

nel morto fiume il vecchio che tragitta

tutti di là. Ti cerca, acre fiutando,

dall'altra riva il cane che divora

ciò ch'è di troppo. Tutti, o Psyche, invano!

O Psyche! o Psyche! dove sei? Ma forse

nelle cannucce. Ma chi sa? Tra il gregge.

O nel vento che passa o nella selva

che cresce. O sei nel bozzolo d'un verme

forse racchiusa, o forse ardi nel sole.

 

Ché Pan l'eterno t'ha ripresa, o Psyche.

 

         II

LA CIVETTA

 

«O tristi capi! O solo voci! O schiene

vaie così come la biscia d'acqua!

Via di costì!» gridava agro il custode

della prigione. Era selvaggio il luogo,

deserto, in mezzo della sacra Atene,

con sue deformi catapecchie al piede

di bigie roccie dalle strie giallastre,

piene di buchi, verdeggianti appena

qua e là di partenio e di serpillo.

Il sole era sui monti, e nell'azzurro

passava fosco a ora a ora un volo

d'aspri rondoni che girava attorno,

sopra la rocca, alla gran Dea di bronzo,

forte strillando. Ed anche in terra un gruppo

di su di giù correva, di fanciulli;

strillando anch'essi. Ed ecco s'aprì l'uscio

della casa degli Undici, e il custode

alzò dal tetro limitar la voce.

 

Egli diceva: «È per voi scianto ancora?

Ieri da Delo ritornò la nave

sacra, e le feste sono ormai finite.

Non è più tempo di legar col refe

gli scarabei! Non più, di fare a mosca

di bronzo!» Un poco più lontano il branco

trasse, in silenzio. Poi gridarono: «Ohe?

che parli tu di scarabei, di mosche?

È una civetta.» In vero una civetta

tutta arruffata era nel pugno a Gryllo

figlio di Gryllo facitor di scudi,

ch'era il più grande. Ma l'avea pocanzi

in un crepaccio Hyllo predata, il figlio

d'Hyllo vasaio, ch'era il più piccino.

In un crepaccio della bigia rupe,

sotto un cespuglio di parïetaria,

vide due rilucenti Hyllo stateri

d'oro, nell'ombra, e s'appressò; ma l'oro

non c'era più: poi li rivide i due

fissi e tondi nell'ombra occhi d'uccello.

Una civetta della Dea di Atene

immobilmente riguardava il figlio

d'Hyllo vasaio; che con le due mani

all'improvviso l'abbrancò su l'ali,

e la portava. E Coccalo sorvenne

che gliela prese; a Coccalo la prese

Cottalo; e Gryllo a lui la vinse: allora

Cottalo pianse, Coccalo sorrise,

e il piccolino frignò dietro il grande.

 

Ma Gryllo avvinse con un laccio un piede

della civetta, e la facea sbalzare

e svolazzare al caldo sole estivo.

E dai tuguri altri fanciulli, figli

d'arcieri sciti, figli di metèci,

trassero. E in mezzo a tutti la civetta

chiudeva apriva trasognata gli occhi

rotondi, fatti per la sacra notte.

E il coro «Balla» cantò forte «o muori!»

 

E nel carcere in tanto era un camuso

Pan boschereccio, un placido Sileno

col viso arguto e grossi occhi di toro.

Dolce parlava. E gli sedeva ai piedi

un giovanetto dalla lunga chioma,

bellissimo. E molti altri erano intorno,

uomini, muti. Ed a ciascuno in cuore

era un fanciullo che temeva il buio;

e il buon Sileno gli facea l'incanto.

«Voi non vedete ciò ch'io sono. Io sono»

egli diceva «ciò che di me sfugge

agli occhi umani: l'invisibile. Ora

s'ei guarda, come fosse ebbro, vacilla;

ma non è lui, non è quest'io, che trema:

trema ciò ch'egli guarda, che si vede,

che mai non dura uguale a sé, che muore.

Io, di me, sono l'anima, che vive

più, quanto più vive con sé, lontana

dal mondo, nella sacra ombra dei sensi.

E s'ella parta libera per sempre,

nella notte immortale, ove si trovi

ella con tutto che non mai vacilla,

ella morrà? non vedrà più?» Qualcuno

«Vedrà» rispose; «Non morrà» rispose.

 

Poi fu silenzio. Il musico vegliardo

Pan era solo, accanto al suo pensiero,

invisibile. Il bello adolescente,

supino il capo, con la lunga chioma

spiovente, lungi dalla nuca, all'aria,

beveva l'eco delle sue parole.

Ed ecco entrò dall'abbaino un canto

d'acute voci: «Balla, dunque, o muori!»

 

E il custode dal tetro uscio i fanciulli

striduli fece lontanar nel sole,

fuor dell'ombra dei tetti e della roccia.

Ma là, nel sole, molleggiò più goffa

sul pugno a Gryllo, s'arruffò, chiudendo

aprendo gli occhi, la civetta, e i bimbi

ridean più forte. Onde il custode: «O Gryllo

figlio di Gryllo, tu che sei più savio,

dà retta. Sai: codesto uccello è sacro

alla Dea nostra, a cui tu canti l'inno

movendo nudo coi compagni nudi

per la città. La nostra Dea sa tutto,

ché gli occhi ha grigi, di civetta, e vede

con essi per l'oscurità del cielo.»

«No, che non vede» disse Hyllo «né vuole

vedere, e chiude gli occhi tondi al sole.»

«Passero, taci. Tu, Gryllo» il custode

riprese, «grande già mi sei. Conosco

tuo padre, il buono artefice di scudi.

Tu gli somigli come fico a fico.

Fa chetare le tortore ciarliere.

C'è dentro la mia casa uno che muore!»

«Chi? Questa sera?» «Al tramontar del sole!»

«Perché?» «La nave ritornò da Delo.

Ed egli vide un sogno: una vestita

di bianche vesti, che gli disse: O uomo,

il terzo giorno toccherai la terra!

E la cicuta, sì, berrà dentr'oggi.

Tra poco, o Gryllo. Che in silenzio ei muoia!»

 

Tacquero allora i giovanetti a lungo

pensando all'uomo che così, per mare,

tornava in patria. E Gryllo disse: «È l'uomo

che andava scalzo e passeggiava in aria,

e diceva che il sole era una pietra,

e sapeva che terra era la luna...»

Ed in silenzio trassero alla roccia

tutti, e stettero presso la prigione,

come aspettando. E la civetta, al lento

filo costretta, si posò sul ramo

d'un oleastro che sporgea dal masso

sopra i ricciuti capi dei fanciulli.

Si chinò, s'arruffò, molleggiò, cieca

per la gran luce rosea del tramonto.

E dai tegoli un passero la vide

e garrì contro la non mai veduta,

e vennero altri passeri al garrito;

e il frastuono eccitò le rondinelle,

e fuori ognuna si versò dal nido;

e da un tacito ombroso bosco sacro

venne la capinera e l'usignuolo.

E grande era lo strepito e il bisbiglio,

pur non udito dai fanciulli, attenti

ad una voce che venìa di dentro,

di chi tornava alla sua patria terra

invisibile, e placido parlava

a un'altra barca che incrociò sul mare.

 

E poi cessato il favellìo di dentro,

un dei fanciulli disse: «Hyllo, tu monta

su le mie spalle, e narra quel che vedi.»

Hyllo montò sul dorso a quel fanciullo,

e sogguardò per l'abbaino: «Io vedo.»

«Hyllo, che vedi?» «Un buon Sileno vecchio.»

«Che dice?» «Dice che andrà via, che il morto

non sarà lui: seppelliranno un altro.»

Il sole in tanto ritraeva i raggi

dai bianchi templi della sacra Atene.

Sola splendea la cuspide dell'asta

che aveva in mano la gran Dea di bronzo.

Brillò d'un tratto e poi si spense; e il sole

calò raggiando dietro il Citerone.

«Hyllo, che vedi?» «Beve.» «La cicuta!»

«Piangono, gli altri; uno si copre il capo

con la veste, uno grida.» «Esso, che dice?»

«Dice di far silenzio, come quando

si sparge l'orzo, presso l'ara, e il sale.»

 

Ed era alto silenzio, che s'udiva

il passo scalzo su e giù dell'uomo,

e poi nemmeno si sentì quel passo..

«Hyllo, che vedi?» «È sul lettuccio; un altro

gli preme un piede. S'è coperto. Muore...»

«Dunque non esce?» «Ora si scopre. Dice:

Un gallo al Dio che ci guarisce i mali!»

«Che? La cicuta è un farmaco salubre?»

«Uno gli chiude ora la bocca e gli occhi.»

«Dunque non parte? è sempre lì?» «Sì, morto.»

 

E bisbigliando stavano i fanciulli

lungo la roccia, al buio. Ecco e la porta

s'aprì. N'usciva con singhiozzi e pianti

un vecchio, un giovinetto, altri poi molti

tristi gemendo. E dall'inconscie dita

il filo uscì con un lieve urto a Gryllo:

e il sacro uccello della notte in alto

si sollevò con muto volo d'ombra.

E i compagni del morto ed i fanciulli

scosse un subito fremito, uno strillo

di sopra il tetto, Kikkabau... dall'alto,

Kikkabau... di più alto, Kikkabau...

dal cielo azzurro dove ardean le stelle.

E disse alcuno, udendo il fausto grido

della civetta: «Con fortuna buona!»

 

 

I GEMELLI

 

Che sente il fiore cui la molle forza

di vita svolge i petali del boccio?

Quel che sentiva allora la fanciulla,

che si svolgea dal calice più bianca

e più sottile, il collo così lasso,

che lo piegava l'occhio di sua madre.

La neve già struggeva, ma non tutta:

se ne vedeva qua e là sui monti.

Spuntava l'erba, verdicava il salcio,

e ravvenate ora mescean le polle.

Era sui monti, era a bacìo la neve

ancora: ella si fece anche più bianca

e più sottile: un pianto nella casa

sonò: poi, la fanciulla era sparita.

 

E il suo gemello la richiese al padre

meditabondo. Egli accennò lontano.

E la richiese alla soletta madre,

che gli sorrise, e lacrimò più tanto.

«Sappi: è nel prato asfòdelo... C'è bello...

Lieta, sebbene senza il suo gemello...

No, non è sola, ma tra un fitto sciame...

Un fiore hanno alla sete ed alla fame...

Sì: tu ci andrai... Sì: la vedrai... tra giorni...

Resta con me! s'ora ci vai, non torni!»

Ma il giovinetto andò per prati e boschi,

sempre cercando. Un giorno seguì l'api

a un prato, le ronzanti api ad un fonte.

Nel fonte ritrovò la sua sorella.

 

Il giovinetto si chinò sul fonte,

e la fanciulla apparve su dal fonte.

Egli era mesto, ed era, anch'ella, mesta.

Ma le sorrise, ed ella gli sorrise.

Aprì la bocca per chiamarla a nome;

subito anch'ella aprì la bocca a un nome.

Ed egli chiese, chi l'avea rapita,

se lieta le era la solinga vita;

ed ella presto rispondea, ma troppo,

ch'ella parlava mentre egli parlava.

Ed egli tacque, ed ella tacque: allora

egli riprese, ma riprese anch'ella.

E il giovinetto non intese, e pianse.

E la fanciulla si confuse, e pianse.

 

Ora una voce chiamò lui: la voce

della sua madre che l'avea smarrito.

«Ci chiama. Vieni con il tuo gemello

dalla tua madre. C'è, con lei, più bello!»

Ella rispose; ma fondea nell'ansia

le sue parole con le sue parole.

«Qui non c'è fiori per il tuo digiuno!

Tu sei nel prato ove non c'è nessuno!»

La madre ancora lo chiamò. Le labbra

chinò... che freddo in quelle dolci labbra!

Le diede un bacio sussurrando, Addio!

ed un gorgoglio udì nell'acqua: Addio!

E il giovinetto s'alzò su dal fonte,

e la fanciulla sparve giù nel fonte.

«O madre! O madre! È dove tu m'hai detto!

Ma ella è sola, nel fonte soletto.

Non ho veduto altro che il suo, di capi.

Non ho sentito altro ronzio, che d'api.

Non ha vicine altre compagne care!

Non ha quei fiori per il suo mangiare!

Vieni tu, madre; ella ritornerà!»

«O figlio! O figlio! T'ha deluso un Dio!

Il fior che dissi è il fiore dell'oblio.

E tu non vieni dal fiorito prato

ch'è più lontano del cielo stellato!

A chi ci va, gli è presso, come l'orto;

ma chi ne torna, anche se arriva smorto

a dove dormì, è tuttavia di là!»

 

Ma il giovinetto le afferrò la mano,

e disse: «O Vieni, se non è lontano!»

E, giunti al prato, si chinò sul fonte,

e la sorella venne su dal fonte.

Ah! ma nel fonte presso il suo sorriso

c'era la madre col suo mesto viso!

«O madre! O madre! Ecco che lei s'attrista

dacché nel grave tuo dolor t'ha vista!»

«O figlio! O figlio! Io sono lì pur quella!

Non hai due madri! E non hai più sorella!»

E turbò l'acqua. E madre e figlia sparve

oscuramente, qua e là, nel gorgo;

fin che, ondeggiando, tremuli, a fior d'acqua

vennero ancora figlio e madre in pianto.

 

Ed egli allora oh! sì, capì. Ma venne

per molti giorni al tralucente lago,

a rivedere in sé la sua sorella

che in lui viveva; ed esso in lei moriva.

Ed era il tempo che il nostro dolore

cadea qual seme, e ne nasceva un fiore:

un fior dal sangue delle nostre vene,

un fior dal pianto delle nostre pene.

Ed egli fu il leucoio, ella il galantho,

il fior campanellino e il bucaneve.

E questo avea tre petali soltanto;

e quello, sei, coi sommoli un po' verdi.

Candidi entrambi, a capo chino entrambi.

 

Spuntava il croco, il morto per amore

bel giovinetto. E non fu lor compagno.

E non l'ai ai videro del giacinto

dal vento ucciso. Non fioriva ancora.

Erano soli soli; ché la neve

era sui monti, era a bacìo, tuttora.

E qualche alato, ch'ebbe vita umana

già, come loro, già piangea, ma seco,

sommessamente: o dentro sé pensava

quel pianto amaro ch'è poi dolce canto.

I due puri gemelli esili fiori,

fu breve la lor vita anche di fiori.

Amor fu quello prima dell'amore.

Non, forse, amore, ma dolor, sì, era.

 

Sparvero prima della primavera.

 

 

I VECCHI DI CEO

 

           I

I  DUE  ATLETI

 

Nella rocciosa Euxantide, sul monte

tra la splendida Iulide e l'antica

sacra Carthaia, cauto errava in cerca

non so se d'erbe contro un male insonne

o di fiori per florido banchetto,

Panthide atleta: atleta già, ma ora

medico, di salubri erbe ministro.

E coglieva, più certo, erbe salubri,

ché il capo bianco non chiedea più fiori.

Partito già da Iulide pietrosa

era su l'alba. Or l'affocava il sole;

sì che saliva al vertice del monte

folto di quercie nel cui mezzo è l'ara

del Dio che manda all'arsa Ceo le pioggie

tra un bombir lieto. E giunse tra le quercie

sul ventilato vertice. E gli occorse

uno ascendente per la balza opposta.

E riconobbe un vecchio ospite, atleta

anch'esso: Lachon, che vedeasi in casa

molte corone, il secco appio dell'Istmo,

il Nemèo verde, non ormai già verde,

e l'alloro e l'olivo: altri germogli

no; non di cari figli altra corona.

Ché solo egli era. E per la via selvaggia

coglieva anch'esso erbe salubri o fiori,

per morbo insonne o florido convito:

ma, più certo, salubri erbe, ché un cespo

svelgendo allora da un sassoso poggio,

le vecchie rughe egli facea più tante.

 

Ora gli stette agli omeri Panthide,

non anco visto, immobile, col fascio

dei lunghi steli dietro il dorso; e l'altro

sentì che un'ombra gli pungea la nuca;

e si voltò celando la mannella

della sua messe. Ma con un sorriso

a lui mostrò la sua Panthide, e disse:

«Oh!» disse «vedo. Non è crespo aneto,

Lachon, per un convito; non è mirto;

né cumino né molle appio palustre...»

Erano cauli con, nel gambo, rosse

chiazze e con bianchi fiorellini, in cima.

E Lachon interruppe: «Ospite, il Tempo,

che viene scalzo, all'uno e all'altro è giunto,

della cicuta; come è patria legge:

chi non può bene, male in ceo non viva

Disse Panthide: «Ricordiamo il detto

dell'usignolo che di miele ha il canto,

dell'isolana ape canora: Il cielo

alto non si corrompe, non marcisce

l'acqua del mare... L'uomo oltre passare

non può vecchiezza e ritrovare il fiore

di gioventù.» «Noi ritroviamo il fiore

della cicuta!» con un riso amaro

Lachon riprese, e poi soggiunse: «Un fascio

coglierne, tutto in un sol dì, per vecchi,

ospite, è grave. Oh! non ha senno l'uomo!

Sin dalla lieta gioventù va colto,

un gambo al giorno, il fiore della morte!»

 

           II

L'INNO ETERNO

 

E sederono all'ombra d'una quercia

l'un presso l'altro. Sotto la lor vista

tra bei colli vitati era una valle

già bionda di maturo orzo; e le donne

mietean cantando, e risonava al canto

l'aspro citareggiar delle cicale

su per le vigne solatìe dei colli.

E nella pura cavità del cielo,

di qua di là si rispondean due voci

parlando di lor genti che lontane

tenea Corinto dove è un tempio dove

sono fanciulle ch'hanno ospiti tanti...

E nel mezzo alla valle era Carthaia

simile a bianco gregge addormentato

da quell'uguale canto di cicale.

Il mare in fondo, qualche vela in mare,

come in un campo cerulo di lino

un portentoso biancheggiar di gigli.

Tra mare e cielo, sopra un'erta roccia,

la Scuola era del coro: era, di marmo

candido, la ronzante arnia degl'inni.

Ivi le frigie tibie, ivi le certe

doriche insieme confondean la voce

simile ad un gorgheggio alto d'uccelli

tra l'infinito murmure del bosco.

Ivi sonava, dolce al cuor, la lode

del giovinetto corridore e il vanto

del lottatore; e per sue cento strade

l'inno cercava le memorie antiche,

volava in cielo, si tuffava in mare,

incontrava sotterra ombre di morti,

tornando, ebbro di gioia ebbro di pianto,

con due fogliuzze a coronar l'atleta.

 

Era lontano, e non vedean che il bianco

dei marmi al sole, i due pensosi vecchi.

Eppur di là l'alterna eco d'un inno

giungeva al cuore, o forse era nel cuore.

Da destra il giorno si movea col sole,

portando il canto e l'opere di vita,

verso sinistra, al mesto occaso, donde

co' suoi pianeti si volgea la notte

tornando all'alba e conducendo i sogni,

echi e fantasmi d'opere canore.

Fluiva il giorno, rifluìa la notte.

Sotto il giorno e la notte, e la vicenda

di luce e d'ombra, di speranza e sogno,

stava la terra immobile. Ma il coro

era più rapido. Arrivava un'onda

dal mare, un'altra ritornava al mare.

Era la vita. Dopo il moto alterno

d'un'onda sola che salìa cantando

scendea scrosciando, mormorava il mare

immobilmente. E molte vite in fila

salìan dal mare riscendean nel mare:

quindi l'eterno. E dall'eterno altre onde:

i figli. Altre onde dall'eterno: i figli

dei figli. E onde e onde, e onde e onde...

 

     III

EFIMERI

 

Disse Panthide: «Ospite, ho cinque figli

molto lodati, come sai: Zelòto

il primo: Argeo, buono alla lotta, eppure

fiorito appena di peluria il labbro,

l'ultimo: è questi ora su l'Istmo, ai giochi.

Lachon, ascolta. Ieri udii, su l'alba,

un grido in casa, un fievole vagito

che mi chiamava al talamo del figlio

più grande. Andai. Vidi una luce: un uomo

novo fiammante! E con le sue manine

egli annaspava come a dire - O vedi

ch'io l'ho pur qui la lampada di vita

accesa a quella ch'alla tua s'accese!

Più non è danno se la tua si spenge:

Son io Panthide. Puoi partire, o nonno! -

Parlato ch'ebbe, egli movea le labbra

come assetato... E io dovrei tutt'ora

tener le labbra al pispino del fonte,

vietando io vecchio al mio novello il bere?

gli dovrei forse intorbidar la polla?

Io parto. E, come io sono lui, non muoio.»

E Lachon disse: «Oh! io vorrei che un poco

la piccoletta fiaccola negli occhi

miei balenasse! Oh! io vorrei per poco

con la mia mano ripararle il vento!

vorrei, seduto per qualche anno al fonte

di vita, senza berne più che un sorso,

vorrei vedere quella rosea bocca

arrotondarsi sul bocciuol materno!

Ospite, io credo, più di me tu muori.»

 

Tacquero intenti a udirsi, dentro, l'inno

del lor respiro, onda che viene e onda

che va, seguite da un pensiero immoto.

Le mietitrici avean ripreso il canto

tra l'orzo biondo, e risonava al canto

l'aspro citareggiar delle cicale.

E disse Lachon: «Troppo bella, o sacra

isola Ceo! Chi nacque in te, che volle

morire altrove? Ma sei poca a tanti!»

A cui Panthide: «Poca sì... ma Delo

appena morti i figli suoi bandisce.

Partono i morti dalla sacra Delo

sopra la nave nera, esuli, e vanno

mirabilmente pallidi, sul mare,

alla Rhenèa dove non son che morti;

e sole capre e pecore selvaggie

belano errando sopra il lor sepolcro.»

Lachon pensava e su la palma il capo

reggea dubbioso. «Io mi ricordo» ei disse

«un inno udito, ora è molt'anni, in Delfi,

lungo l'Alfeo: Siamo d'un dì! Che, uno?

che, niuno? Sogno d'ombra, l'uomo!»

L'ombra di lui teneva su la palma il capo:

pensava, a piè dell'albero; e vicine

stridere udiva l'ombre delle foglie.

 

          IV

L'INNO ANTICO

 

Poi raccolti i lor fasci di cicute

sorsero entrambi, e dissero: Va sano!...

Va sano!... E ritornavano cogliendo

ancor pei greppi i fiori della morte.

Esalava il canùciolo e il serpillo

odor di cera e dolce odor di miele.

Ronzavano api e scarabei de' fiori.

E Lachon giunse al prònao d'Apollo,

alla Scuola del coro. Era già sera,

una sera odorosa; ed il suo nome

udì gridare a voci di fanciulli.

Eran fanciulli che, in lor giochi, un inno

volean cantare a mo' dei grandi, un inno

vecchio, che ognuno aveva, in Ceo, nel cuore.

Presto un impube corifeo la schiera

ebbe ordinata, e già da destra il coro

movea cantando per la via del sole,

verso la sera, con gridìo d'uccelli.

 

Pubertà,

fonte segreto che spiccia

senza un tremito e un gorgoglio,

ma che di tenero musco

veste insensibilmente lo scoglio:

a te dia Lachon l'erba del leone,

l'appio verde del bosco Nemèo.

 

Conobbe l'inno, il primo inno cantato

a lui quand'era il suo destino in boccia

tuttora, quanti anni passati? Tanti!

E da sinistra volsero i fanciulli,

come i notturni aurei pianeti, a destra.

 

Nulla sta!

Tutto nel mondo si muove,

corre, o giovinetto atleta,

come nell'inclito stadio

tu col piede di vento alla meta:

di che la prima delle tue corone

tu riporti all'Euxantide Ceo.

 

I fanciulli si volsero con gli occhi

al cielo e al mare, fermi su la terra

sacra, alzando le acute esili voci.

 

Ora è ora d'amare.

L'appio verde vuoi sol tu?

Corrano, un tempo, le gare,

dove Lachon non sia più,

giovani ch'ansino e rapidi sbuffino l'anima

tua, la tua, lungo l'Alfeo!

 

E nel cospetto dei fanciulli apparve

Lachon il vecchio con le sue cicute,

e intorno al vecchio corsero i fanciulli

gridando: «A noi, perché ci sia ghirlanda!

l'appio a noi! l'appio verde! l'appio verde!»

 

          V

L'INNO NUOVO

 

E Panthide a quell'ora era pur giunto

sotto l'aerea Iulide natale.

E vide in mare una bireme, e vide

che ammainando entrava già nel porto.

E dall'aerea Iulide e dal grande

leon di pietra accovacciato in vetta,

il popolo scendea lungo l'Elixo,

scendea dall'alto in lunga fila al mare.

Veniano primi i giovinetti a corsa,

dando alla brezza i riccioli del capo;

poi le donne altocinte, ultimi i vecchi,

spartendo tra due passi una parola.

Poi che giungea dall'Istmo, la bireme,

portando alfine i buoni atleti a casa,

e quante niuno ancor sapea, ghirlande.

E trasse al lido anche Panthide, in seno

celando il fascio delle sue cicute.

Stava in disparte. Ed ecco dalla nave

scese una schiera di settanta capi

bruni, tutti fioriti di corimbi,

e su la spiaggia stettero. Un chiomato

citaredo sedé sopra un pilastro,

e presso lui gli auleti con le lunghe

tibie alla bocca. E il mare eterno, il mare

alterno, a spiaggia sospingea l'ondate,

le ricogliea, così tra il canto e il pianto.

 

Stridé la tibia, tintinnì la cetra,

e il coro alzò tra il sussurrìo del mare

un inno di Bacchylide. In disparte

era Panthide, e il vecchio cuor batteva

contro la manna delle sue cicute.

L'onda ascendeva, discendeva l'onda;

e il coro andò, poi ritornò sul lido.

 

O sacra Ceo!

mosse ver te la fulgida

Fama che in alto spazia,

a te recando un messo

pieno di grazia,

che nella lotta il pregio

fu del valido Argeo;

 

e noi la grande

gloria, sull'istmio vertice,

venuti dall'Euxanti-

d'isola dia, facemmo

chiara coi canti

nostri, noi coro adorno

di settanta ghirlande:

 

ed or la musa indigena

suscita il dolce strepito

di tibie lyde

per onorar d'un inno

il tuo figlio, o Panthide!

 

Udì Panthide, e il cuor batté più forte

contro la manna delle sue cicute.

Ora poteva sciogliere la vita

felicemente, come alcuno un fascio

d'erbe e di fiori che nel giorno colse,

sfa, su la sera, che ne fa ghirlanda,

tornato a casa. Ché dei cinque figli

niuno lasciava senza lode in terra.

Gli avea ben fatto il Sole, e dalle Grazie

avea sortito ciò Che all'uomo è meglio.

Ammirato dagli uomini mortali

tornava a casa, per pestare, il saggio

medico, l'erbe nel mortaio di bronzo.

E la notte era dolce, aurea; tranquillo

era il suo cuore. Ché il Panthide nuovo

s'era acquetato sul materno petto,

e il forte Argeo, stanco di mare e gioia,

dormiva, già sognando altre corone.

Buona, la sorte! buona! Ché concesso

non gli era mica di salire al cielo!

 

 

ALEXANDROS

 

I

 

– Giungemmo: è il Fine. O sacro Araldo, squilla!

Non altra terra se non là, nell'aria,

quella che in mezzo del brocchier vi brilla,

 

o Pezetèri: errante e solitaria

terra, inaccessa. Dall'ultima sponda

vedete là, mistofori di Caria,

 

l'ultimo fiume Oceano senz'onda.

O venuti dall'Haemo e dal Carmelo,

ecco, la terra sfuma e si profonda

 

dentro la notte fulgida del cielo.

 

II

 

Fiumane che passai! voi la foresta

immota nella chiara acqua portate,

portate il cupo mormorìo, che resta.

 

Montagne che varcai! dopo varcate,

sì grande spazio di su voi non pare,

che maggior prima non lo invidïate.

 

Azzurri, come il cielo, come il mare,

o monti! o fiumi! era miglior pensiero

ristare, non guardare oltre, sognare:

 

il sogno è l'infinita ombra del Vero.

 

III

 

Oh! più felice, quanto più cammino

m'era d'innanzi; quanto più cimenti,

quanto più dubbi, quanto più destino!

 

Ad Isso, quando divampava ai vènti

notturno il campo, con le mille schiere,

e i carri oscuri e gl'infiniti armenti.

 

A Pella! quando nelle lunghe sere

inseguivamo, o mio Capo di toro,

il sole; il sole che tra selve nere,

 

sempre più lungi, ardea come un tesoro.

 

IV

 

Figlio d'Amynta! io non sapea di meta

allor che mossi. Un nomo di tra le are

intonava Timotheo, l'auleta:

 

soffio possente d'un fatale andare,

oltre la morte; e m'è nel cuor, presente

come in conchiglia murmure di mare.

 

O squillo acuto, o spirito possente,

che passi in alto e gridi, che ti segua!

ma questo è il Fine, è l'Oceano, il Niente...

 

e il canto passa ed oltre noi dilegua. -

 

V

 

E così, piange, poi che giunse anelo:

piange dall'occhio nero come morte;

piange dall'occhio azzurro come cielo.

 

Ché si fa sempre (tale è la sua sorte)

nell'occhio nero lo sperar, più vano;

nell'occhio azzurro il desiar, più forte.

 

Egli ode belve fremere lontano,

egli ode forze incognite, incessanti,

passargli a fronte nell'immenso piano,

 

come trotto di mandre d'elefanti.

 

VI

 

In tanto nell'Epiro aspra e montana

filano le sue vergini sorelle

pel dolce Assente la milesia lana.

 

A tarda notte, tra le industri ancelle,

torcono il fuso con le ceree dita;

e il vento passa e passano le stelle.

 

Olympiàs in un sogno smarrita

ascolta il lungo favellìo d'un fonte,

ascolta nella cava ombra infinita

 

le grandi quercie bisbigliar sul monte.

 

 

TIBERIO

 

I

 

Discende a notte Claudïo dal monte

Borèo: col vento dalle nubi fuori

rompe la luna e gli balena in fronte,

 

fuggendo. Egli rimira, a quei bagliori,

Livia e l'infante: intorno vanno frotte

silenziose di gladïatori.

 

S'ode tra lunghe raffiche interrotte

l'Eurota in fondo mormorar sonoro;

s'ode un vagito. E nella dubbia notte

 

le nere selve parlano tra loro.

 

II

 

Rabbrividendo parlano le selve

di quel vagito tremulo, che a scosse

va tra quel cauto calpestìo di belve.

 

Sommessamente parlano, commosse

ancor dal vento, che vanì; dal vento

Borea, che le aspreggiò, che le percosse.

 

Dal ciel lontano a quel vagito lento

egli era accorso; ma nell'infinito

ansar di tutto, dopo lo spavento,

 

risuona ancora quel lento vagito.

 

III

 

Chi vagisce, è Tiberio. E il vento accorre

dal ciel profondo tuttavia; spaura

le nubi in fuga, e sbocca dalle forre.

 

Le selve il mormorìo della congiura

mutano in urlo, e gli alberi giganti

muovono orridi in una mischia oscura.

 

Lottano i pini coi disvincolanti

frassini, e l'elci su la stessa roccia

coi faggi urtano i vecchi tronchi infranti.

 

E il fiore della fiamma apresi e sboccia.

 

IV

 

Sboccia la fiamma, e il vento la saetta,

come una frusta lucida e sonante,

via per ogni pendìo, per ogni vetta.

 

Il vento con la frusta fiammeggiante,

col mugghio d'una mandrïa di tori,

cerca il vagito del fatale infante.

 

Ardono i monti; ma ne' suoi due cuori

Livia tranquilla, indomita, ribelle,

tra i rossi òmeri de' gladïatori,

 

nutre Tiberio con le sue mammelle.

 

 

GOG E MAGOG

 

I

 

A mandre, come gli asini selvaggi,

in vano andava e ritornava in vano

Gog e Magog coi neri carriaggi;

 

e la montagna li vedea nel piano

errare, udiva di tra le tormente

di quelle fruste lo schioccar lontano;

 

ed un bramir giungeva, della gente

di Mong, come umile abbaiar di iene,

all'inconcussa Porta d'occidente.

 

II

 

Ché tra due monti grande era, di rosso

bronzo, una porta; grande sì, che l'ombra

ne trascorreva all'ora del tramonto

 

mezza la valle. Il figlio dell'Ammone

la incardinò per chiudere gl'immondi

popoli, e i neri branchi di bisonti:

 

la sprangò, chiuse. Ma ristette al sommo

dei monti: un chiaro strepere di trombe

giungea dalle Mammelle d'Aquilone.

 

III

 

V'era il Bicorne... E gli ultimi che, infanti,

aveano udito il gran maglio cadere

su le chiavarde, erano grigi vecchi;

 

e non partiva... E i figli lor, giganti

dagli occhi fiammei, dalle lingue nere,

o nani irsuti dai mobili orecchi,

 

erano morti; e d'ognun d'essi, i mille

erano nati, quante le faville

da un tizzo: ma il Bicorne era lassù.

 

IV

 

In alto in alto, a guardia dell'Erguene-

cun; e lo squillo delle sue diane

movea valanghe e rifrangea morene.

 

S'empiva, ogni alba, il cielo di poiane;

e l'Orda a valle, come nubi al suono

del nembo, nera s'addossava al Kane:

 

carri che rotolavano dal cono

delle montagne; un subito barrito

d'elefanti; una voce come tuono...

 

V

 

Ma meno udian di giorno quel tumulto

lassù; di giorno anche le genti chiuse

ruggìano, e il cibo dividean con l'unghie.

 

Vaniva il grido di lassù nell'urlo

della lor fame. Era, di giorno, tutto

al sangue, Alan, Aneg, Ageg, Assur,

 

Thubal, Cephar. Più, nelle notti lunghe,

s'udiva, quando concepìan, nel Yurte,

le loro donne i figli di Mong-U.

 

VI

 

La luna andava su per orli gialli

di nubi, in fuga: per l'intatta neve

stavano in cerchio mandre di cavalli:

 

le teste in dentro, immobili, tra il bianco,

stavano: a ora a ora un nitrir breve,

un improvviso scalpitìo del branco.

 

Ché tutta la montagna solitaria

muggìa. Temeva anche la luna, e lieve

balzava su, da nube a nube, in aria.

 

VII

 

O risplendea sul murmure infinito,

pendula. Cinto d'edere e d'acanti

l'Eroe, tolte le faci del convito,

 

scorreva in festa i gioghi lustreggianti,

e laggiù, dalle tonde ombre dei pini,

l'Orda ascoltava lunghi aerei canti;

 

udiva lunghi gemiti marini

di conche, e, tra il tintinno della cetra,

timpani cupi, cimbali argentini.

 

VIII

 

Gog e Magog tremava; e le sue donne

dissero: «Non ha madre Egli, cui dolce

gli sia tornare, pieno d'ambra e d'oro?

 

non figli, greggi? non fiorenti mogli

presso cui, sazio di narrar, si corchi?

Forse hanno a sdegno lui così bicorne!

 

Dunque e perché non scende Egli dal monte

né prendesi una dalle nostre torme,

che gli sia bestia, tra Gog e Magog?»

 

IX

 

Gog e Magog tremava... Uno dei nani

cauto trovò gli stolidi giganti.

«Noi moriamo, o giganti, ed Egli no.

 

Io che muovo gli orecchi come i cani,

intesi cose. Non c'è sempre avanti

Zul-Karnein. A volte a Rum andò.

 

Parte col sole. A un fonte va, di stelle

liquide, azzurro. Con le due giumelle

v'attinge vita. Ogni cent'anni un po'.»

 

X

 

Ora Egli un giorno (la Montagna tetra

parea più presso e, come scheletrita,

mostrava il bianco ossame suo di pietra)

 

per l'ombra, dove non sapea che dita

reggeano erranti lampade d'argento,

per l'ombra andava al fonte della vita.

 

E non più squilli di tra i gioghi, e il vento

soffiava in vano. La gran Porta un poco

brandiva, a tratti, con émpito lento.

 

XI

 

Gog e Magog tre dì, vigile, attese;

tre notti attese; e non udì, che a sera

la Porta a quando a quando brandir lenta.

 

Non c'era più sui monti... E l'Orda prese

la via dei monti. Andava l'Orda nera

formicolando sotto la tormenta.

 

All'alba mugliò lugubre un bisonte,

nitrì un cavallo, si spezzò la schiera...

Uno squillo correa da monte a monte.

 

XII

 

E dissero le donne: «Uomo da nulla

Zul-Karnein! Tornasti in fretta! O forse

non c'era al fonte sola una fanciulla?

 

non una tua sorella, che la secchia

abbandonò vuota sul fonte, e corse

ansando in casa alla tua madre vecchia?

 

Or fa, divino ariete, sonare

le trombe! Al suono delle tue fanfare

l'uom ci si desta, e poi... non dorme più.»

 

XIII

 

E gli uomini ulularono: «Ha bevuto

in Rum al fonte delle stelle azzurro!

Zul-Karnein è sempre ciò che fu.»

 

E lor fu in odio ogni altra vita, e il frutto

d'ogni altro ventre; e il rosso sangue munto

bevvero alle bisonti, alle zebù.

 

Né più sonava per la valle un muglio.

Non sonò più, Gog e Magog, che l'urlo

interminato delle sue tribù.

 

XIV

 

Ma sì, partì Zul-Karnein, nel fuoco

d'un vespro: per il monte erano stese

porpore cupe a margini di croco.

 

Nel cocchio d'oro folgorando ascese

l'Eroe; nell'ombra lontanò tra un gaio

ridere di berilli e di turchese,

 

Un balenìo di cuspidi d'acciaio,

un'eco d'inni che tremola ed erra

qua e là... Tacque infine irto il ghiacciaio.

 

XV

 

Tre anni attese il Tartaro, tre anni

spiò l'arrivo degli stessi draghi

dagli occhi d'oro sopra la montagna

 

tacita e sola. Il Tartaro guardava,

né già temeva, e più sentìa la fame

e l'ira, e con man d'orso per la valle

 

svellea betulle, sradicava ontani.

Ma vide gli occhi degli stessi draghi

la terza volta, e venne alla montagna.

 

XVI

 

A piè delle Mammelle d'Aquilone

giunsero cauti. E il vecchio nano astuto

con mani e piedi rampicò sui tufi.

 

E vide in cima un grande padiglione

come di tromba, e vi scivolò muto:

v'udì soffi, vi scorse occhi di gufi.

 

Un nido immondo riempiva il vuoto

di quella tromba. Un grande gufo immoto

v'era, due ciuffi in capo irti, da re.

 

XVII

 

Prese due penne il vecchio nano, e stette

sopra una roccia, ed agitò le penne,

e chiamò l'Orda, che attendeva: «A me,

 

Gog e Magog! A me, Tartari! O gente

di Mong, Mosach, Thubal, Aneg, Ageg,

Assum, Pothim, Cephar, Alan, a me!

 

A Rum fuggì Zul-Karnein, le ferree

trombe lasciando qui su le Mammelle

tonde del Nord. Gog e Magog, a me!»

 

XVIII

 

O stolti! Quelle trombe erano terra

concava, donde il vento occidentale

traeva, ansando, strepiti di guerra.

 

Rupperle disdegnando col puntale

de' lor pungetti, e dalle trombe rotte

gufi uscivan con muto batter d'ale.

 

Risero accorti, e sparsi per le grotte

bevvero sangue. Sopra loro un volo

muto, di sogni, e i gridi della notte.

 

XIX

 

Alla gran Porta si fermò lo stuolo:

sorgeva il bronzo tra l'occaso e loro.

Gog e Magog l'urtò d'un urto solo.

 

La spranga si piegò dopo un martoro

lungo: la Porta a lungo stridé dura-

mente, e s'aprì con chiaro clangor d'oro.

 

S'affacciò l'Orda, e vide la pianura,

le città bianche presso le fiumane,

e bionde messi e bovi alla pastura.

 

Sboccò bramendo, e il mondo le fu pane.

 

 

LA BUONA NOVELLA

 

            I

IN ORIENTE

 

I

 

Si vegliava sui monti. Erano pochi

pastori che vegliavano sui monti

di Giuda. Quasi spenti erano i fuochi.

 

Altri alle tombe mute, altri alle fonti

garrule, presso. Il plenilunio bianco

battea dai cieli sopra le lor fronti.

 

Ognun guardava ai cieli, come stanco,

stanco nel cuore; ognuno avea vicino

il dolce uguale ruminar del branco.

 

Sostava sino all'alba del mattino

il cuor del gregge, sazio di mentastri;

ma il cuore de' pastori era in cammino

 

sempre; ch'erano erranti come gli astri,

essi: avean la bisaccia irta di peli

al collo, e tra i ginocchi i lor vincastri,

 

e cinti i lombi, e nella mano steli

d'issopo. E alcuno, come è lor costume,

cantava, fiso, come stanco, ai cieli.

 

E il canto, sotto i cieli arsi dal lume,

a piè dell'universo, era sommesso,

era non più che un pigolìo d'implume

 

caduto, sotto il suo grande cipresso.

 

II

 

Maath cantava: - O tu che mai non poni

il tuo vincastro, e che pari nell'alto

le taciturne costellazïoni,

 

Dio! che la nostra vita cader d'alto

fai, come pietra, dalla tua gran fionda...

la pietra cade sopra il Mar d'asfalto.

 

Pietra ch'è nel Mar morto e non affonda,

la vita! Cosa grave che galleggia,

e va e va dove la porta l'onda!

 

O Dio, noi siamo come questa greggia

che va e va, né posso dir che arrivi,

nemmen se giunga al pozzo della reggia! -

 

Addì cantava: - Tu, sola tu, vivi,

o greggia, che non mai dalle tue strade

vedi la Morte ferma là nei trivi.

 

Vedo qualche smarrito astro che cade:

muore anche l'astro. Ma tu, pago il cuore,

stai ruminando sotto le rugiade.

 

O greggia, solo chi non sa, non muore!

Tu non odi l'abisso che rimbomba

presso il tuo dente, e strappi lieta il fiore

 

del loto eterno ai sassi della tomba.

 

III

 

E un canto invase allora i cieli: pace

sopra la terra! E i fuochi quasi spenti

arsero, e desta scintillò la brace,

 

come per improvvisa ala di venti

silenzïosi, e si sentì nei cieli

come il soffio di due grandi battenti.

 

Erano in alto nubi, pari a steli

di giglio, sopra Betlehem; già pronti

erano, in piedi, attoniti ed aneli,

 

i pastori guardando di sui monti,

e chi presso le tombe, onde una voce

uscìa di culla, e chi presso le fonti,

 

onde un tumulto scaturìa di foce:

e un angelo era, con le braccia stese,

tra loro, come un'alta esile croce,

 

bianca; e diceva: «Gioia con voi! Scese

Dio sulla terra.» Ed a ciascuno il cuore

sobbalzò verso: il bianco angelo, e prese

 

via per vedere il Grande che non muore,

come l'agnello che pur va carponi;

il Dio che vive tutto in sé, pastore

 

di taciturne costellazioni.

 

IV

 

Mossero: e Betlehem, sotto l'osanna

de' cieli ed il fiorir dell'infinito,

dormiva. E videro, ecco, una capanna.

 

Ed ai pastori l'accennò col dito

un angelo: una stalla umile e nera,

donde gemeva un filo di vagito.

 

E d'un figlio dell'uomo era, ma era

quale d'agnello. Esso giacea nel fieno

del presepe, e sua madre, una straniera,

 

sopra la paglia. Era il suo primo, e il seno

le apriva; e non aveva ella né due

assi: all'albergo alcun le disse: È pieno.

 

Nella capanna povera le sue

lagrime sorridea sopra il suo nato,

su cui fiatava un asino ed un bue.

 

- Noi cercavamo Quei che vive... - entrato

disse Maath. Ed ella con un pio

dubbio: - Il mio figlio vive per quel fiato...

 

- Quei che non muore... - Ed ella: - Il figlio mio

morrà (disse, e piangeva su l'agnello

suo tremebondo) in una croce... - Dio... -

 

Rispose all'uomo l'Universo: È quello!

 

 

          II

IN OCCIDENTE

 

I

 

Grande, lungo le molte acque, al sussurro

del fiume eterno, sopra i sette monti,

 bianca di marmo in mezzo al cielo azzurro,

 

Roma dormiva. Agli archi quadrifronti

battea la luna; e il Tevere sonoro

fiorìa di spuma percotendo ai ponti.

 

Alto fulgeva col suo tetto d'oro

il Capitolio: ma la notte mesta

adombrava la Via Sacra del Foro.

 

Nell'ombra un lume: il fuoco era di Vesta,

che tralucea. Nel tempio le Vestali

dormian ravvolte nella lor pretesta.

 

Era la notte dopo i Saturnali.

Nelle celle de' templi, sui lor troni,

taceano i numi, soli ed immortali.

 

Intorno alla Dea Madre i suoi leoni

giacean nel sonno. Gli ebbri Coribanti

dormian con nell'orecchio ululi e tuoni.

 

Rosso di sangue uno giaceva avanti

la Dea. Dischiuso il tempio era di Giano.

Esso attendeva, coi serrami infranti,

 

l'aquile che predavano lontano.

 

II

 

Roma dormiva, ebbra di sangue. I ludi

eran finiti. In sogno le matrone

ora vedean gladiatori ignudi.

 

Ne' triclini ai dormenti le corone

eran cadute, e s'imbevean le rose

nel sangue che fluì dal mirmillone.

 

Dormivan su le umane ossa già rose,

le belve in fondo degli anfiteatri;

e gli schiavi tornati erano cose.

 

Dopo la breve libertà, negli atrï

giacean gli ostiari alla catena, quali

cani la cui leggera anima latri.

 

Era la notte dopo i Saturnali;

ed ogni schiavo dalla tarda sera

dormiva, udendo ventilar grandi ali,

 

e gracidare. Erano cigni a schiera

sul patrio fiume... No: su l'Esquilino

erano corvi in una nube nera...

 

Ei tesseva e stesseva il suo destino:

vedea sua madre; poi sentia la voce

del banditore: apriva al suo bambino

 

le braccia, e le sentia fitte alla croce.

 

III

 

Roma dormiva. Uno vegliava, un Geta

gladïatore. Egli era nuovo, appena

giunto: il suo piede, bianco era di creta.

 

L'avean, col raffio, tratto dall'arena

del circo; e nello spolïario immondo

alcun nel collo gli aprì poi la vena,

 

Rantolava; il silenzio era profondo:

il cader lento d'una goccia rossa

solo restava del fragor del mondo.

 

Ma d'uomini gremita era la fossa

in cui giaceva. All'occhio suo, tra un velo,

parea scoprirne e ricoprirne l'ossa.

 

Ed era solo, e l'uomo che col gelo

lo pungea di sua cute, più lontano

gli era del più lontano astro del cielo;

 

più della terra sua, più del suo piano

lunghesso l'Istro, e de' suoi bovi ch'ora

sdraiati ruminavano pian piano,

 

e de' suoi figli ch'attendean l'aurora,

piccoli nella lor nomade cuna,

e del suo plaustro, ch'era sua dimora,

 

là fermo e nero al lume della luna.

 

IV

 

E venne bianco nella notte azzurra

un angelo dal cielo di Giudea,

a nunzïar la pace; e la Suburra

 

non l'udiva; e nel tempio alto di Rhea

bandì la pace; e non alzò la testa

quell'uomo rosso ai piedi della Dea;

 

e vide, un fuoco, e disse, PACE; e Vesta

ardeva, e le Vestali al focolare

sedeano avvolte nella lor pretesta;

 

e vide un tempio aperto, e dal sogliare

mormorò, pace; e non l'udì che il vento

che uscì gemendo e portò guerra al mare.

 

E l'angelo passò candido e lento

per i taciti trivi, e dicea, pace

sopra la terra!... Udì forse un lamento...

 

Vegliava, il Geta... Entrò l'angelo: pace!

disse. E nella infinita urbe de' forti

sol quegli intese. E chiuse gli occhi in pace·

 

Sol esso udì; ma lo ridisse ai morti,

e i morti ai morti, e le tombe alle tombe

e non sapeano i sette colli assorti,

 

ciò che voi sapevate, o catacombe.

 

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